Davar acher – Memoria e azione
La memoria non è un’immagine del mondo, né una collezione oggettiva di fatti e personaggi e neppure un loro innocente racconto: su questo le scienze sociali, dalla psicologia alla sociologia alla semiotica, hanno accumulato molta chiarezza. E neppure la memoria è storia, perché quest’ultima anche etimologicamente è ricerca e narrazione, ricostruzione paziente e accurata. La memoria è piuttosto una pratica, un’azione individuale e sociale che è sempre in relazione con l’identità di un soggetto personale o collettivo e serva a costituirla, rafforzarla, proseguirla, modificarla. Pertanto la memoria anche la più benintenzionata e onesta è sempre pure selezione e oblio di ciò che esce dai suoi limiti e trascende il suo senso.
Questo è vero anche della memoria della Shoà che l’Europa ha scelto di celebrare in questi giorni (mentre, vale la pena di ricordarlo qui, la celebrazione religiosa ebraica si svolge in altre date, principalmente con Iom Hashoà fra Pesach e Iom Haatzmaut, nel digiuno del 9 di Tevet, per alcuni dentro il rituale di Pesach ecc.). La giornata della memoria prende come oggetto in senso stretto il genocidio nazista degli ebrei d’Europa, anzi si concentra sui campi di sterminio e in primo luogo su Auschwitz. Nel farlo, però, lascia ai margini altri campi come ad esempio Belzec (tra le 500 e le 700 mila vittime), Jasenovac (700 mila sterminati) e Chelmno (200 mila uccisi), e ignora quasi del tutto le vittime della prima fase del genocidio, i moltissimi ammazzati nei luoghi dove vivevano; per citare solo un nome Babi Yar, quel fossato nei pressi della città ucraina di Kiev. dove fra il 29 e il 30 settembre del 1941, furono massacrati 33.771 ebrei.
Questa marginalità della memoria delle vittime precedenti al funzionamento delle macchine della morte porta con sé, forse non per caso, l’oblio dei “volonterosi carnefici” delle popolazioni in mezzo a cui gli ebrei vivevano, che a loro volta furono occupate e oppresse dai tedeschi o si allearono loro: polacchi, ucraini, lituani, estoni, croati, in certa misura ungheresi e anche italiani e francesi collaborazionisti, che non mancarono. Quel che si dimentica del tutto, in una memoria focalizzata solo sulla “soluzione finale del problema ebraico”, è soprattutto come e chi ha insistentemente montato questo “problema” nel corso del tempo precedente a Auschwitz.
Fino alla rivoluzione francese, discriminazione degli ebrei e stragi ricorrenti (non puramente occasionali) si presentarono nella totalità delle società cristiane ed islamiche – più o meno nella stessa misura, nonostante quel che si ama dire oggi. Dopo l’emancipazione, la maggior parte degli ebrei d’Europa (praticamente tutti gli ebrei italiani, per esempio, ma anche gli ebrei tedeschi da Mendelssohn fino a Hermann Cohen), aveva deciso di inserirsi integralmente nelle società nazionali, aveva partecipato con entusiasmo e sacrificio alle loro vicissitudini, guerre incluse, si era illuso di potersi fondere in quei popoli mantenendo solo una differenza religiosa non diversa da quella fra cattolici e protestanti. C’era stata però una campagna secolare per sottolineare la loro colpevole differenza e indicare in loro (allo stesso tempo capitalisti e rivoluzionari, arcaici e sovvertitori delle tradizioni, nemici della nazione e suoi proprietari) i responsabili di ogni sofferenza popolare e crisi economica; ma inoltre ancora inoltre gli autori di diritti mostruosi, dal “deicidio” agli omicidi di bambini cristiani per trarne il sangue per le azzime eccetera.
In questa azione, (oltre ovviamente ai razzisti alla De Gobineau, Chamberlain e Rosenberg) da un lato si distinsero il Vaticano con gli ambienti cattolici (ancora nel 1913, vent’anni appena prima dell’inizio della Shoà, la segreteria di Stato respinse sdegnosamente un appello di Lord Rotschild perché prendesse le distanze dalle accuse del sangue emerse in Ucraina e sostenute da tutta la stampa cattolica, “Osservatore Romano” e “Civiltà cattolica” inclusa. Cfr. David Kertzer, “I papi contro gli ebrei”, cap. 11). Dall’altro queste accuse e discriminazioni permeavano il movimento operaio internazionale, come ha mostrato di recente ancora una volta libro di Michele Battini (“Il socialismo degli imbecilli”), nonostante il fatto o forse per il fatto che buona parte dei suoi esponenti è di origini ebraiche. L’odio di sé di personaggi come Karl Marx si allinea con il rancore del clero fra le premesse del genocidio.
La memoria europea della Shoà tiene nell’oblio queste posizioni infinitamente ripetute, che rappresentano la paternità più ancora la complicità delle stragi, ignora il legame fra Shoà e rifiuto della società liberale moderna, anzi tende certe volte a rovesciare la realtà facendo del genocidio ebraico un frutto della modernità, del liberalismo e degli stati nazionali invece che anche del rifiuto cattolico, “romantico” o socialista di questa cultura della modernità occidentale.
Che l’Europa abbia deciso di agire sulla propria identità attraverso la memoria della Shoà è certamente una buona cosa. Agli ebrei forse spetta anche il compito di non permettere che il genocidio sia presentato come un atto isolato, frutto della follia o della malvagità di singoli individui o partiti, ma di cercare di obbligare chi vuol ricordare ad allargare il fuoco della memoria, fino a comprendervi le cause e le complicità. E infine e soprattutto di spiegare che la Shoà costituisce l’ultimo (e forse neanche più l’ultimo anello della catena di una storia di stragi e di persecuzioni), sicché non per un’impossibile e storicamente insussistente “compensazione”, ma come forma di precauzione e autodifesa, essa giustifica la costituzione di uno stato ebraico e l’attaccamento che gli ebrei nutrono oggi per la sua vita e identità. Bisognerebbe cercare di far sì che tutti capissero, attraverso l’esercizio della memoria, che le stragi degli ebrei sono una tentazione permanente delle società cristiane e musulmane e “socialiste”, della cui guarigione ci sono tutte le ragioni per dubitare: l’ultima in ordine di tempo di queste ragioni è l’atteggiamento discriminatorio e razzista che buona parte dell’Europa e tutto il mondo islamico tengono nei confronti dell’ebreo degli stati e del rifugio degli individui ebrei, lo Stato di Israele. La giornata della memoria è retorica se considera solo il fatto dell’omicidio di massa; diventa un compito politico ancora importante e impegnativo se si allarga alla premesse e alle conseguenze, all’antisemitismo di sempre e alla necessità di uno stato ebraico.
Ugo Volli