…Memoria

Nel Giorno della Memoria. Il nuovo importante libro di Manuela Consonni, pubblicato dalla Magnes Press, la prestigiosa casa editrice dell’Università di Gerusalemme, si intitola in ebraico “Resistenza o Shoah”. Alquanto agevole, dunque, la traduzione del titolo in italiano. Il sottotitolo, invece, è più complesso: “Zikaròn hagherúsh vehahashmadàh beItàliah 1945-1985”. Il senso della traduzione in italiano è: “La memoria della deportazione e dello sterminio in Italia, 1945-1985”. E qui emerge un serio problema semantico sul quale sarebbe opportuno discutere in ebraico ma del quale è bene che anche i lettori italiani siano al corrente.
La parola “gherúsh” in ebraico vuol dire “espulsione”, come nel caso di “gherúsh Yehudé Sefaràd”, l’espulsione degli ebrei dalla Spagna. L’espulsione è un’azione coercitiva con la quale l’autorità esecutrice si libera della presenza non desiderata di una persona, senza preoccuparsi del destino di tale persona oltre i confini della sovranità territoriale. La parola “gherúsh” è effettivamente divenuta parte integrante del lessico ebraico israeliano, forse sotto l’impressione delle vicende degli ebrei in Europa orientale, molti dei quali furono effettivamente espulsi dalle loro residenze e abbandonati al loro casuale e drammatico destino di fronte a un ambiente fisico e umano ostile alla sopravvivenza. Ma la parola “deportazione”, certo adatta non solo alle condizioni degli ebrei in Europa occidentale ma anche a quelle di moltissimi ebrei in Europa orientale, e di quelli che la subirono in Nord Africa, ha un significato completamente diverso. Non si trattò di un’operazione di casuale violenza dall’esito incerto, ma di un’azione politica e logistica meticolosamente meditata, pianificata ed eseguita e dai fini ben precisi. “De-portare” non vuol dire grossolanamente e genericamente scacciare verso destinazione ignota, ma attentamente accompagnare da un certo luogo specifico verso destinazione nota. L’ebraico “gherúsh” è quindi completamente inadeguato alla bisogna e andrebbe sostituito da un termine più pertinente, basato sulla parola “portare” (la cui radice ebraica sarebbe “nas’à” con le consonanti “sin” e “alef”). Si potrebbe allora proporre il termine “hasa’ah” che vorrebbe dire “il far portare”, oppure perfino con un gioco di parole, “hassa’ah” (con le consonanti “samech” e “‘ain”) che vorrebbe dire “il far viaggiare”.
Tutto questo nulla toglie all’eccellente analisi di Manuela Consonni, il cui pregio principale è quello di orientare i riflettori su quello che nel dopoguerra è stato il fenomeno inquietante dell’appropriazione della specificità della storia, della memoria e dell’identità, e quindi della Shoah, ebraica da parte dei molti che – forse con le migliori intenzioni – nel mondo della cultura, delle arti e della politica erano preoccupati dall’urgenza di assemblarsi attorno a una storia, una memoria, un’identità nuova e differente – quella della Resistenza. Era finita la guerra mondiale con il fascismo, stava cominciando la democrazia con la guerra fredda, e in un paese in cui in definitiva la continuità fra i regimi prevaleva sulla discontinuità, la recita passava fulmineamente da un vecchio a un nuovo copione. La parola “Shoah”, che è soprattutto sterminio, nel 1945 non esisteva e si cominciava a parlare, erroneamente, di Olocausto. La Shoah degli ebrei italiani veniva rappresentata con il termine “deportazione”, che è soprattutto ma non solo il portare verso l’ultimo viaggio. Il fato oscuro, particolare, parrocchiale della minoranza ebraica fu a lungo derubricato a sotto-categoria dell’ethos più generale, pubblicamente rilevante, ed eroico della Resistenza, non importa se autentico o meno. Ma è anche vero che nel corso degli anni, soprattutto dopo gli anni ’80, la memoria della Shoah degli ebrei italiani assumeva un ruolo a volte davvero ipertrofico nella memoria pubblica dell’Italia, mentre le deportazioni dei militari e dei politici – ben più numerose e certo non meno significative di quelle degli ebrei per la storia d’Italia – venivano quasi dimenticate sul sottofondo della ricostruzione della compagine nazionale. Se poi la lezione morale e storica della Shoah sia stata realmente metabolizzata nel profondo della cultura e della politica italiana è domanda aperta a cui una risposta potrà essere data solamente nei tempi lunghi.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme