Davar acher – “Palestine Papers”
Nella grande inflazione comunicativa del Giorno della Memoria e naturalmente anche nell’ombra delle agitazioni politiche e sociali che scuotono in questi giorni il mondo arabo, pochi in Italia hanno fatto caso ai “Palestine Papers” pubblicati congiuntamente dalla televisione del Qatar Al Jazeera e dal quotidiano inglese The Guardian. Si tratta di 1600 documenti sottratti all’Autorità Palestinese, appunti, minute di riunioni, messaggi diplomatici, che testimoniano, dal punto di vista di Ramallah il negoziato sul Medio Oriente. Vale la pena di dedicarvi una riflessione. Sull’onda di Wikileaks i “papers” sono stati presentati come “rivelazioni esplosive”, ma un po’ come il loro modello hanno detto poco di nuovo rispetto a quel già che si sapeva. E cioè che negli anni scorsi c’è stata una trattativa fra Israele e Autorità Palestinese, in cui si è discusso di una divisione fra i due stati pressappoco simile alle linee armistiziali del ’49 (quelli che alcuni, sbagliando, chiamano “i confini del ’67”), da correggere con scambi di territori.
Di queste trattative, condotte durante il governo Olmert, si sapeva molto, per esempio l’intenzione di dividere Gerusalemme e i suoi dintorni secondo linee etniche – il che costituirebbe una grande e difficilissima rinuncia da parte israeliana, pensando per esempio alla città vecchia. La novità al proposito è un’imprevista rigidità palestinese sullo scambio: chi pensa che la pace sia a portata di mano immagina che i palestinesi siano già disposti all’annessione a Israele dei cosiddetti “grandi blocchi” di insediamenti ebraici, beninteso in cambio di altri territori, in modo da limitare il problema dei trasferimenti di popolazione. Ma la chiusura dell’AP su questi scambi nei “papers” è durissima anche rispetto a città come Ariel e dunque la lontananza da qualunque soluzione praticabile è ancora molto grande. Su un altro punto cruciale come il “rientro dei profughi” invece emerge una maggiore disponibilità, nel senso che i palestinesi sembrano rendersi conto che, al di là di ogni questione di principio, Israele non può assorbire un “rientro” di centinaia di migliaia o milioni di palestinesi. Si vede infine che l’Autorità Palestinese non esita ad allearsi a Israele contro i suoi nemici interni, coordinando l’azione contro i terroristi di Hamas – ma questo era già stato concordato e apparso sul terreno in diverse circostanze.
Gli aspetti più interessanti riguardano dunque non le posizioni espresse ma il contesto di queste rivelazioni: in primo luogo l’idea che ormai il furto di documenti è considerata una legittima fonte di notizie e nessuna riservatezza privata o pubblica è più veramente tutelata: il primato del pettegolezzo è un carattere del nostro tempo su cui vale la pena di riflettere, perché corrisponde a fatti tecnologici (Facebook), giornalistici politici e perfino antropologici.
In secondo luogo è significativo il fatto che spesso le rivelazioni consistono nello “strillo” di fatti noti: uno strillo che però ha spesso un forte ed esplicito carattere propagandistico, come in questo caso. Si raccontano dei “segreti” per agire contro il loro depositario, sostenere un’opinione, far passare anche la propaganda come un fatto nascosto dagli avversari e finalmente rivelato. L’appoggio di “Al Jazeera” al terrorismo di Hamas è stato spesso denunciato non solo da Israele ma anche dall’Autorità Palestinese; quanto al “Guardian”, è oggi il giornale più antisraeliano di Inghilterra e forse d’Europa. Nonostante questo schieramento esplicito, parte della campagna permanente di buona parte della stampa per delegittimare Israele e dunque dunque nonostante l’ovvio sospetto che le loro affermazioni siano funzionali a un disegno politico anti-israeliano, le loro “rivelazioni” sulla grandezza delle “concessioni palestinesi” e il “rifiuto israeliano di trattare” sono state prese per buone da tutti i media. Il pettegolezzo legittima l’ideologia.
Infine, bisogna riflettere che in casi del genere, più che i fatti “rivelati” sono interessanti le reazioni alla “rivelazione”. Sia l’opposizione che il governo israeliano hanno rifiutato di commentare i “Palestine papers”, anche perché le posizioni che vengono loro attribuite dai documenti in sostanza coincidono con quelle sostenute pubblicamente dai diversi attori della politica israeliana. Nei “Papers” come in Wikileaks non vi sono imbarazzi per Livni, Olmert o Netanyahu, per il semplice fatto che il governo israeliano è democratico e la sua politica non può scostarsi troppo dalle sue affermazioni pubbliche, perché il governo ha un parlamento e un elettorato cui rendere ragione delle proprie azioni.
L’Autorità Palestinese ha invece perso l’occasione per confermare al proprio popolo la semplice verità che anche nella migliore delle ipotesi per le posizioni palestinesi, gli scambi di territorio andranno fatti, almeno parte delle “colonie” dovranno essere annesse a Israele, e il “rientro dei profughi” non potrà avvenire in Israele se non in maniera assolutamente simbolica. Ha invece smentito proprio questo aspetto delle rivelazioni, quel tanto di realismo che aveva mostrato nelle trattative (“mezze verità e menzogne” ha detto il loro negoziatore Erkat), implicitamente confermando così la tesi di Hamas (e di Al Jazeera e del Guardian) che il negoziato e gli inevitabili compromessi necessari per concluderlo sono “vergognosi”, che la terra non solo è “palestinese” ma anche “sacra” e intangibile; mostrando insomma di non avere il coraggio di guidare alle proprie posizioni il popolo che governa, insomma di non essere pronta per la pace. Fra l’altro, dai “papers” si vede che i governanti palestinesi hanno mostrato pubblico scandalo e cercato di mobilitare il mondo contro Israele per le costruzioni in territori che essi già consideravano israeliani: un esempio considerevole di demagogia distruttiva.
Il popolo palestinese infine, invitato alla rivolta da Hamas (e da Al Jazeera e dal Guardian), non è affatto sceso per le strade, non ha protestato come calcolavano i nemici di Israele (e della trattativa). Forse non sono meno ipocriti dei loro governanti e meno ideologici e accecati dall’odio dei loro fomentatori. Se c’è una speranza di trattativa coi palestinesi, essa è riposta sul buon senso della popolazione e non in una classe dirigente squalificata, corrotta, senza il coraggio delle scelte che essa stessa considera necessarie.
Ugo Volli