È giusto gioire quando il nemico cade?

L’altra sera, nel Tempio Maggiore di Roma, a conclusione delle manifestazioni del Giorno della Memoria, si è tenuto un incontro con i sopravvissuti ai Lager nazisti. Uno degli ex-deportati ha raccontato dell’immensa gioia che provò nel vedere le decine di sentinelle tedesche morte nelle torrette attorno al campo di Dachau, appena liberato dalle truppe anglo-americane. Ovviamente, la riflessione che qui propongo non è un giudizio su questo episodio, né sull’averlo raccontato davanti a migliaia di persone. Nessuno si può permettere di giudicare gli atti, i pensieri, i sentimenti di chi è sopravvissuto all’inferno, né durante la permanenza nei campi né dopo. Neanche chi nei campi c’è stato può parlare riguardo ad altri che hanno vissuto esperienze simili, perché ogni caso è sempre un caso a sé. Tuttavia, ci si può chiedere se l’applauso che ha fragorosamente accompagnato le parole dell’ex-deportato fosse appropriato. La Bibbia scrive: “Non gioire mentre il tuo nemico cade e quando egli inciampa il tuo cuore non si rallegri” (Proverbi 24, 17).
Si potrebbe obiettare che nel calendario ebraico ci sono, apparentemente, diverse feste a ricordo della sconfitta dei nemici del popolo d’Israele. In realtà, spiega Rabbi Meir Simcha Hakohen (1843-1926) nel commento “Meshekh Chokhmà”, non è affatto così. Il settimo giorno di Pesach è festa solenne e in questo giorno in effetti avvenne il passaggio degli ebrei nel Mar Rosso con conseguente sconfitta dei soldati egiziani che affogarono fra i flutti. Ma, scrive il Meshekh Chokhma, la festa fu comandata ben prima dell’uscita dall’Egitto (vedi Esodo 12, 16), proprio per insegnarci che il motivo della festa non è la sconfitta del nemico. Dopo tutto, poteva anche darsi che il Faraone decidesse di non ordinare al proprio esercito di inseguire gli ebrei che fuggivano. In questo caso gli ebrei sarebbero usciti in pace, gli egiziani non sarebbero morti, e il settimo giorno sarebbe comunque stato un giorno festivo. Aggiunge il Meshekh Chokhma che a causa della morte degli egiziani non si recita in forma completa l’Hallel (i salmi di lode) negli ultimi giorni di Pesach, e cita il noto midrash secondo cui D-o dice agli angeli (che avrebbero voluto fare grande festa): “Le Mie creature affogano nel mare e voi cantate?” (Talmud bavlì, Meghillà 10b). Discorso analogo si può fare per le feste di Chanukkà e Purim, in cui non si festeggia la sconfitta dei nostri nemici ma la riconsacrazione del Santuario di Gerusalemme e il raggiungimento della pace e della salvezza.
D-o non gioisce quando i malvagi soccombono (e i nazisti non c’è dubbio che fossero dei resha’im assoluti). Tanto meno lo dobbiamo fare noi, anche quando assistiamo alla loro morte. Chi ha commesso colpe, deve essere giudicato dai tribunali (e da D-o nell’aldilà). Se il nemico muore in battaglia o per qualsiasi altro motivo, però, non possiamo gioirne. Uno dei motivi per cui gli ebrei sono stati in esilio in Egitto è per insegnarci tutta una serie di norme che concernono il rapporto con gli altri uomini e affinché impariamo a tenere un comportamento corretto.

rav Gianfranco Di Segni, Collegio rabbinico italiano