I ribelli della Memoria

27 gennaio, Giorno della Memoria. Una Memoria con la M maiuscola, condivisa e spesso istituzionalizzata, una Memoria che finisce puntualmente sui corsivi dei giornali tanto quanto nelle trasmissioni televisive del mattino. “Ricordare per non dimenticare”, questo lo slogan più diffuso in questa data. Eppure c’è chi non si accontenta, c’è persino chi protesta contro una Memoria data per scontata, che rischia di offuscare il diritto individuale alla singole memorie. Una Memoria sbandierata per ripulire le coscienze collettive e che, in alcuni casi, ha persino prodotto una classe (per favore, non parliamo di castismo) di “professionisti della Memoria.”
Tra i ribelli della Memoria, spiccano i nomi di due personaggi diversissimi tra loro, ma uniti dal rifiuto della museificazione della Shoah, e della dolorosa esperienza ebraica più in generale: sono la storica francese Annette Wieviorka, classe 1948, docente del Centre National de la Recherche Scientifique,la più autorevole istituzione accademica d’Oltralpe, e lo scrittore di Tel Aviv Etgar Keret, classe 1967, che negli anni Novanta ha dato il via a una new wave della letteratura israeliana.
Annette Wieviorka ha ripetuta mente denunciato la “riduzione della Memoria a una ideologia”, se non addirittura a un’industria, come in questa intervista a Pagine Ebraiche, il mensile dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane:
“Sono appena rientrata da una riunione della giuria del concorso annuale per la tutela dei valori espressi dalla Resistenza e contro la deportazione in Francia. Si tratta di una grande iniziativa che coinvolge molte scuole francesi e tutte le organizzazioni di ex deportati. La giuria è composta da 40 persone e fra di loro ho contato tre anziani, che rappresentavano il mondo di chi era in grado di portare una testimonianza e una conoscenza diretta sul tema. Tutti gli altri componenti erano rappresentanti di enti pubblici e di fondazioni private, direttori di musei, docenti di vario genere. Tutte persone degnissime, ma che traggono la loro esclusiva legittimazione dal fatto di aver ottenuto un impiego in questo settore. Sono funzionari della Memoria, appositamente retribuiti. E la Memoria rischia di ridursi a un’ideologia, se non addirittura a un’industria”.
Inoltre non nasconde che, talvolta, una Memoria troppo esibita può nascondere il tentativo di esorcizzare un confronto con la coscienza storica o politica:
“Possiamo osservare che sulla Memoria si dimostrano non a caso particolarmente sensibili governi e istituzioni ansiose di far dimenticare qualche imbarazzo del passato (per esempio una politica di estrema tolleranza nei confronti di Arafat e del terrorismo palestinese, o radici che affondano nel terreno avvelenato dell’estrema destra antisemita). E possiamo osservare che in occasioni di importanti contatti istituzionali le istanze che provengono dal mondo ebraico e le disponibilità che provengono dal mondo politico tendono a incrociarsi sul terreno della Memoria”.
Con tutto un altro tono, e altre motivazioni, lo scrittore israeliano Etgar Keret estende l’attacco a una memoria troppo istituzionalizzata (e spersonalizzata) non solo alla Shoah, ma anche alla storia recente e alle guerre dello Stato di Israele. Keret, che in questo è stato il precursore di una serie di (ormai non più tanto) giovani scrittori iper-individualisti e intimisti, rivendica prima di tutto il diritto a una memoria personale, legata al vissuto reale più che alla lettura che le istituzioni offrono di questo vissuto.
Nel 1997 Etgar Keret pubblica il racconto Rabin è morto, che provoca un’ondata di critiche nel paese. Non racconta la storia del primo ministro assassinato, bensì di un gatto randagio trovato da due ragazzini annoiati, finito travolto da un sidecar: “Volevamo chiamarlo Shalom, ma Shalom è un nome da yemeniti, e quindi l’abbiamo chiamato Rabin”. La storia in realtà è molto tenera e commuovente, anche se raccontata con un linguaggio distaccato. Eppure è subito scandalo: come si permette il giovane Keret di chiamare un gatto Rabin, mentre scrittori molto più rinomati di lui, come Amos Oz e David Grossman, si prodigano in elegie molto più ortodosse? Sembra un insulto alla Memoria, uno dei valori più intoccabili di Israele.
“La gente si è arrabbiata molto”, racconta lo scrittore in un’intervista al mensile The Believer. “Se uno chiama Rabin un ospedale geriatrico dove la gente se la fa addosso tutto il tempo va bene, ma chiamare Rabin un gatto è problematico. In Israele la gente è molto, molto sensibile ai tabù”. E ancora: “Parlare della Memoria, di Rabin, dell’Olocausto o delle vittime di guerra, è una sorta di monopolio nazionale. Eppure i miei genitori sono sopravvissuti dell’Olocausto, ho votato per Rabin, ho creduto in lui, e il mio migliore amico è morto durante il servizio militare”.
Conclusione? “La Memoria è anche mia, ma se tento di appropriarmene a modo mio la gente si arrabbia”.

Anna Momigliano