Tuvia Friedman (1922-2011)

Tutti i suoi giorni li ha dedicati a una missione, o, come sosteneva sua moglie Anna Gutman, a un’ossessione: prendere i nazisti, fargliela pagare.
Tuvia Friedman era nato nel 1922 a Radom, in Polonia. Dopo l’invasione del suo paese fu catturato dai tedeschi e rinchiuso in un campo di concentramento nei pressi di Radom, dal quale riuscì a fuggire nel 1944. Tutta la sua famiglia, eccezion fatta per la sorella, Bella Friedman, fu sterminata.
Prima e dopo la fine del Secondo conflitto mondiale non si stancò di dare la caccia ai nazisti. Il suo nome di battaglia, nelle milizie semiufficiali della Polonia liberata, era Lo spietato. Col pensiero fisso di vendicare la morte dei suoi familiari, girò per tutta la Polonia, cacciando e talvolta liquididando i nazisti.
Nel 1945, dopo la liberazione della Polonia, fu protagonista di un episodio che ben esemplifica la profonda dedizione alla sua missione: al fine di acciuffare personalmente la SS Konrad Buchmayer, catturato e detenuto in un campo di prigionia, si finse a sua volta un ufficiale nazista per essere portato anch’egli nello stesso campo. Non voleva rischiare che il gerarca la passasse liscia.
Non passò molto tempo dalla fine della guerra perché Friedman si associasse con l’altro grande cacciatore di nazisti, Simon Wiesenthal. Dalla loro base viennese i due impostarono insieme un’attività che nel corso degli anni contribuì alla cattura di oltre duecentocinquanta nazisti responsabili di crimini di guerra. È stato proprio il Centro Simon Wiesenthal a dare la notizia della sua morte.
La loro azione era così strutturata: da una parte raccoglievano indizi e facevano le ricerche per rintracciare gli ex gerarchi ai quattro angoli del pianeta, dall’altra si impegnavano a tenere alta l’attenzione dei governi e dell’opinione pubblica sul perseguimento dei criminali di guerra. “Si assicurò che il nome di Eichmann comparisse spesso sulle prima pagine dei giornali”, scrive lo storico Tom Segev nel suo recente libro Simon Wiesenthal, the life and legends.
Dopo il 1950 Tuviah Friedman si trasferì in Israele, dove, mentre collaborava all’istituto Yad Vashem, continuò autonomamente a Haifa la sua missione e fondò l’Istituto per la documentazione dei crimini di guerra nazisti.
La sua attività non fu sempre ben vista in Israele: fu perlopiù ignorato dalle autorità e dalla gente, la quale condivideva grosso modo l’opinione della moglie di Friedman. Suo marito, sosteneva Anna Gutman, era ormai vittima di una psicosi. Cercò spesso di farlo desistere, di fargli abbandonare la sua “ossessione”. Gli diceva che ormai la gente cercava di dimenticare i nazisti, ma lui non voleva sentir ragioni. Solo un nome, ormai, gli ronzava per la testa: Adolf Eichmann, lo stratega della soluzione finale.
Un giorno ricevette una telefonata dall’Argentina: un uomo, interessato alla ricompensa di diecimila dollari promessa da Friedman e dal suo Istituto, si dichiarava in grado di fornire informazioni sul luogo in cui si trovava Eichmann.
Friedman rese pubblica la notizia ma non godendo di molto credito presso le autorità israeliane, fu quasi del tutto ignorato. Almeno pubblicamente. Era il 1960. Sappiamo come è andata a finire. L’uomo che si era messo in contatto con Friedman si chiamava Lothar Hermann, un ebreo sopravvissuto allo sterminio e trasferitosi a Buenos Aires. Sua figlia aveva una relazione sentimentale col giovane figlio di Eichmann, il quale le si era rivelato con il suo vero cognome. Il signor Hermann fu colui che passò le informazioni sulla base delle quali il Mossad organizzò il famoso rapimento. Ai servizi segreti, dunque, non era sfuggito l’allarme lanciato da Friedman, ma ufficialmente non gli venne riconosciuto nessun ruolo nella vicenda.
“Per tutti questi anni sono stato ignorato e offeso”, dichiarò una volta, amareggiato, alla stampa israeliana, “ma ho la dote della pazienza”. Come ogni buon predatore.

Manuel Disegni