Davar Acher – Come nasce la democrazia
I recenti eventi mediorientali mettono in rilievo ancora una volta il difficile rapporto fra mondo islamico e in particolare arabo con la democrazia. Ci sono dei paesi islamici con una vita politica più o meno democratica, come l’Indonesia e il Pakistan, teatro peraltro di colpi di stato, stragi di massa, strutture di potere oligarchiche dominanti. Ma è un fatto che la grande maggioranza dei paesi islamici sono governati in maniera apertamente dittatoriale; che le libertà basilari non vi sono in alcun modo garantite e la vita dei loro cittadini che non corrispondono perfettamente al modello sociale dominante è costantemente in pericolo. Anche quando accade una rivolta, la probabilità che essa finisca in un’oppressione maggiore è grande, com’è accaduto in Iran con Khomeini, a Gaza con Hamas e rischia di avvenire anche in Egitto. E’ questo rifiuto islamico della democrazia, non una qualche persecuzione occidentale che rende problematici i cambiamenti politici in quei paesi e fa sì che essi appaiano, a chi ha qualche esperienza politica, sempre anche rischiosi e sospetti.
Non sono competente a spiegare questa eccezione islamica, che è tale anche rispetto agli altri paesi del cosiddetto “terzo mondo”; certo che la causa va cercata nella storia dell’Islam, nella personalizzazione del potere e nelle lotte feroci fra dinastie che lo caratterizzarono fin dalle origini, nella “chiusura dell’interpretazione”, cioè di un dibattito legittimo sui testi, che avvenne quasi mille anni fa, nella mancanza di articolazione sociale fra religione e politica, che ha impedito la nascita di opposizioni legittime al potere.
E’ abbastanza facile invece indicare la differenza ebraica rispetto a questo modello sociale, che ha prodotto una naturale inclinazione alla democrazia. Se partiamo dal racconto della formazione del popolo ebraico nella Torah, è dai tempi di Moshè che si descrive una divisione del potere, fra la guida politica del legislatore, lo spazio liturgico riservato ad Aharon e le rivendicazione del popolo che spesso si contrappone alle sue guide ed è rimproverato per questo ma accontentato. Una dialettica triplice è registrata per tutta la durata del regno fra re sacerdozio e profeti; più tardi nella diaspora la dialettica conserva sempre almeno due poli: abbiamo molti documenti medievali, fra cui alcuni responsa di Rashi e della sua scuola, che ci mostrano come il rabbinato dettasse le regole e stabilisse i limiti della legittimità, ma le comunità si amministrassero in forma assembleare. In certi momenti al rabbino e alla comunità si rapportano dialetticamente anche le famiglie più abbienti, che possono prendersi il compito di rappresentare i loro confratelli di fronte al potere. Se esaminiamo infine il processo di costruzione delle regole, vediamo che la logica della maggioranza viene teorizzata e praticata dall’epoca della Mishnà, se non della Grande Assemblea. Un episodio celebre come quello del forno di Akhnai mostra fra le altre cose la vittoria di questa “democrazia del pensiero”, ma tutta la struttura del Talmud, con la conservazione delle “dissenting opinions” ne è una vastissima prova; cui corrisponde naturalmente il fatto che nell’ebraismo vi sono stati maestri così autorevoli da essere ubbiditi largamente; ma mai gerarchie clericali come nel Cristianesimo o nell’Islam sciita.
Per questa ragione culturalmente e storicamente profonda Israele è stato democrazia da subito, dalle sue origini prestatuali; e nonostante la gran propaganda che si fa per cercare di negarlo resta una vocazione fondamentale del mondo ebraico verso la democrazia. Sappiamo dalla rivelazione del Sinai che la verità ha molteplici facce, dal Talmud che la discussione aperta è il modo migliore per cercarle, dall’esperienza storica che l’accordo di tutti è necessario per sopravvivere come minoranza in mezzo all’ostilità dei nostri vicini.
Ugo Volli