Il ruolo degli Usa

La situazione in Egitto, ovviamente, genera in tutti grande apprensione. Essendo ormai certo che Mubarak, in tempi più o meno brevi, dovrà lasciare il potere, senza trasmetterlo né al figlio né ad altre persone a lui troppo direttamente e palesemente legate, la principale domanda che si pone chiunque abbia a cuore la stabilità del Medio Oriente e del Mediterraneo, è se, e in che misura, chi verrà dopo di lui imprimerà alla politica egiziana una svolta in senso radicale, islamista e antisionista, fino a stracciare il trattato di pace con Israele o, addirittura, a fare nuovamente rullare, dopo decenni di “pace fredda”, i tamburi di guerra. Si cerca quindi di analizzare gli umori delle masse dei manifestanti, di registrare in che misura vengano scanditi slogan anti-israeliani e anti-occidentali, di capire che spazio vadano conquistando i Fratelli Musulmani e gli altri movimenti fondamentalisti, di immaginare quali forze possano, oggi o domani, prevalere. Naturalmente, ogni previsione appare azzardata, e non solo perché gli elementi di valutazione appaiono confusi e contraddittori, ma anche perché la situazione, qualunque sia oggi, può facilmente e rapidamente cambiare, in modo imprevedibile.
Quel che è certo, è che il quadro induce al pessimismo. Ci si chiede se l’Egitto potrà continuare, più o meno, lungo la tradizionale strada di moderazione, o se invece prenderà una deriva “siriana” o, addirittura, “iraniana”. Ma nessuno, neanche il più ottimista degli osservatori, immagina che, rimosso l’attuale governo, prevalga un indirizzo di pace, democrazia, pluralismo, riforme. Certo, secondo i parametri occidentali, il Presidente Mubarak, che regge il Paese da quasi trent’anni, merita senz’altro l’appellativo (così abusato dalla stampa nostrana) di “dittatore”, e appare oggettivamente difficile giustificarne il potere eterno e decisamente autoreferenziale (al di là delle periodiche elezioni-farsa). Ma c’è forse un capo di stato arabo, che sia uno, del quale si possa dire diversamente? È semplicemente ridicolo applicare i parametri degli stati di diritto per giudicare Paesi che non hanno pressoché nessuna tradizione di cultura liberale, minima libertà di stampa e di opinione, altissimi tassi di analfabetismo. È evidente come, in tali contesti, le libere voci di pensiero critico (che non mancano in Egitto, grazie a minoranze coraggiose di intellettuali, giornalisti, studenti) facciano grande fatica a circolare, a essere ascoltate, a condizionare, in qualche modo, il potere costituito, mentre infinitamente più forte è la forza di suggestione esercitata dagli slogan, da parole d’ordine più o meno violente, comunque semplici ed elementari. È questa la ragione di fondo dell’isolamento di Israele, della sua solitudine nella regione.
Quanto alle posizioni internazionali, sorprende, e rattrista, la rapidità e la disinvoltura con la quale il Presidente Obama ha scelto di abbandonare il vecchio alleato al suo destino. Speriamo che non sia una scelta di cui ci si dovrà, un domani, amaramente pentire. Ma potranno ancora, i Paesi arabi moderati, confidare nell’appoggio americano?.

Francesco Lucrezi, storico