Nathan Sharansky, 25 anni di libertà
Anatoly Natan Sharansky. Lei è in arresto. Da domani non sarà più un uomo libero. Per i prossimi 13 anni la sua dimora fissa sarà una cella buia di un gulag sovietico. Non le è permesso tenere nessun oggetto privato. Nemmeno la mia raccolta di poesie popolari ebraiche? Soprattutto quella è vietata.
Privo della libertà di camminare, di pensare e di lottare, Natan Sharansky a una cosa non vuole rinunciare. Alla libertà di pregare. Quel piccolo libro di Tehilim, di Salmi, fatti pervenire per vie traverse dalla moglie Avital, sono la luce quotidiana in una cella priva di finestre. Quei caratteri microscopici quasi impossibili da leggere per un uomo tenuto al buio giorno e notte, sono identità, legame col passato, ossigeno per il presente. E unica speranza di avere un futuro.
Perché tutte la forza per combattere per la libertà deriva dalla mia identità ebraica, pensa dentro di sé Natan quando domanda per tre anni, senza sosta, che gli venga restituito il suo libro. Anche se camminerò nella valle dell’ombra della morte, non temerò il male perché sei con me D-o. Sei nelle frasi, nelle lettere, nelle parole. Mi leghi a mia madre che piange in Russia, a mio padre che non ha avuto un kaddish dopo morto, a mia moglie che lotta disperata per la mia liberazione.
La libertà arriva nove anni dopo. Venticinque anni fa, l’11 febbraio 1986 (nell’immagine Sharansky mano nella mano con l’allora ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres, nel momento dell’arrivo a Gerusalemme, dopo la liberazione). Anatoly Nathan Sharansky è un uomo libero. Di essere ebreo. Di aprire un libro di preghiera, un Tehillim, e di pregare. Non rischia più 100 giorni di cella di isolamento per lo sciopero della fame indetto per poter rientrare in possesso del suo libro.
Quando ti privano di tutto lotti per ciò che davvero vale. Quando hai tutto talvolta dimentichi per cosa vale la pena lottare.
Gheula Canarutto Nemni