Comuni denominatori ed evoluzioni
Domenica pomeriggio ho visitato la favela di Rocinha, la più grande e storicamente più degradata di Rio de Janeiro. Tutto mi sarei immaginato, scoprendo questo luogo interessante e sorprendente, tranne che trovarmi di fronte a un muro completamente ricoperto di Magen David (Stelle di David) e scritte in ebraico: canzoni, salmi, frasi bibliche. Il nostro cicerone ci spiega che ad aver dipinto quel tripudio di simboli è stato l’ebreo della zona, conosciuto da tutti in quanto tale. Un ebreo molto importante, a dire la verità, il migliore fabbricatore di chiavi di tutta la favela, tra le 180 e le 200 mila persone.
Senza fare sociologia d’accatto, né pretendere di trovare una morale in qualunque storia, è difficile immaginare una rappresentazione più plastica dell’adattabilità della religione ebraica (e delle religioni in generale) a qualunque contesto. Anche a quello più estremo. E, dunque, cosa è l’ebraismo? Si tratta di una tradizione immutabile nel tempo e nello spazio, la cui sopravvivenza è stata garantita nel tempo dalla conoscenza e dal rispetto dei precetti religiosi? Forse anche.
Ma l’ebraismo è sempre maturato e cresciuto in un contesto di relazioni, influenzandosi reciprocamente col mondo che incontrava sul suo percorso. L’ebraismo è stato diverso in ogni epoca e si è trasformato in funzione dei paesi e dei luoghi, e questa capacità lo ha reso longevo. Il che, naturalmente, non significa negare minimi comuni denominatori tra tutti gli ebrei – anzi! – ma sottolineare che una tradizione religiosa è frutto di commistioni, evoluzioni, digressioni. Quando si ragiona del futuro dell’ebraismo, spesso con preoccupazione, bisognerebbe tenerlo a mente: spesso si ottengono più risultati con adattamento e flessibilità che non con una rassicurante rigidità.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas