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Il burka, la plastica e il volto delle donne

Una donna il cui volto appare coperto dal burka è una donna protetta, difesa, venerata? Oppure è murata, chiusa, mortificata, decapitata? Per quanto sia difficile rispondere, osservando da vicino la morfologia del drappeggio, non si può fare a meno di vedere un guscio, anzi un feretro. Dentro ci sarà una donna, ma sepolta viva.
Questa sensazione richiede tuttavia di essere chiarita e argomentata. Il tema dell’uguaglianza dei diritti e dell’emancipazione potrebbe non bastare più. Da più di trent’anni le donne occidentali hanno scoperto l’importanza di salvaguardare, accanto al processo di liberazione, anche la propria intangibile differenza. Emanciparsi non vuol dire uniformarsi agli schemi maschili.
Il problema del burka non si riduce né alla vertenza legale sull’identificazione di chi lo porta, né agli ostacoli di ordine pubblico che ne deriverebbero, e neppure alla esibizione di simboli religiosi. La questione ha una profondità che non deve sfuggire: riguarda il volto femminile, paesaggio deturpato della nostra contemporaneità. Oggi qualcosa ne minaccia la fragilità ontologica, ne impedisce il riconoscimento. C’è da chiedersi se il volto plastificato, esito precario della chirurgia estetica, il cui modello per eccellenza è quello esposto allo sguardo meccanico della telecamera, non sia il polo opposto del volto coperto dal burka. In entrambi i casi, sotto la maschera, il volto della donna è abolito, condannato alla irrealtà. E mentre diviene irreale il volto, cancellato nella sua abissale unicità, diviene irreale anche la donna e soprattutto la sua dignità. Non è moralismo auspicare che si impari a vedere corpo e volto femminili nella loro unità.
La copertura del volto è l’esclusione dalla reciprocità del «faccia a faccia». Alla donna che passa per strada con il burka è consentito solo un «fianco a fianco» e lei, a sua volta, consente solo un «fianco a fianco». Così finisce per essere esclusa dalla comunità che si costituisce con gli altri, quelli che le si fanno incontro, quelli che incontra negli spazi pubblici. Il burka è uno dei modi (certo tra i più violenti) per sancire l’esclusione della donna dal pubblico, per impedirne la partecipazione.
E se l’etica è anche un’ottica, a farne le spese non è solo la donna, ma tutta la comunità. Perché ciascuno legge le tracce del proprio volto nel volto degli altri. Non si può mai vedere il proprio volto in modo immediato – tanto meno nello specchio che lo riflette obliquamente. Il solo modo per vederlo è scrutarlo nel volto di chi ci sta di fronte e ci guarda. Nella reciprocità si compie l’esperienza umana fondamentale. Esclusa dal «faccia a faccia» la donna non perde solo il volto e la dignità, ma rischia di de-umanizzarsi. Chi percorre i sentieri della Torah sa che il termine «panim», cioè volti, plurale singolarissimo che rinvia all’infinito in cui un volto si apprende ed è appreso, indica il rapporto, l’incontro, è richiesta di riconoscimento. Il volto della donna è come la meghillah della sua anima, pergamena fragile che attende di essere accolta prima ancora di essere letta e decifrata.
La copertina del «Time», che esibiva la diciottenne afgana Aisha con il naso mozzato, ha suscitato forti reazioni non solo perché è un’immagine shock, ma perché in quel volto deformato si riconosce la deformazione della nostra umanità.

Donatella Di Cesare