La casa comune

La particolarità e la complessità del controverso rapporto tra ebrei e Chiesa cattolica – in particolare in collegamento alla questione del significato che assunse per l’ebraismo l’unificazione del paese, 150 anni fa – è stato ricordato, in pagine di grande lucidità ed equilibrio, in due articoli di Anna Foa, pubblicati sui due ultimi numeri (gennaio e febbraio) di Pagine ebraiche, che felicemente sintetizzano i momenti essenziali della lunga, dolorosa storia. Particolarmente significativo, in particolare, il contributo apparso sul numero di gennaio, che è poi il testo ufficiale della relazione pronunciata dalla storica, alla presenza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e dei vertici delle rappresentanze ebraiche in Italia, in occasione dell’inaugurazione del Congresso nazionale dell’UCEI.
Dopo avere rievocato il grande contributo ebraico al Risorgimento italiano, fondato su una “intima assonanza culturale e ideale fra ebrei e unità d’Italia”, la Foa ha ricordato come, dopo il 1870, l’integrazione ebraica nella società nazionale sia stata rapida e agevole, in una sostanziale assenza di quell’antisemitismo politico che andava invece montando nelle vicine Francia, Austria, Germania. Un’assenza, “da parte del nuovo Stato uscito dal Risorgimento, fondata anche nella nuova ostilità antiebraica della Chiesa dopo la perdita dello Stato temporale, che spinge il mondo politico italiano a stringersi a difesa delle libertà delle sue minoranze e a caratterizzare decisamente in senso liberale la sua politica religiosa”. Ma questa “armoniosa integrazione fra valori ebraici e italiani”, la felice alleanza tra Stato unitario e minoranze sarebbe stata rapidamente offuscata, e poi stracciata, dagli eventi successivi: l’avventura coloniale, il nazionalismo aggressivo, il fascismo, le leggi razziali, la guerra. Tra questi eventi, un’importanza fondamentale assunsero i Patti Lateranensi (non menzionati dalla Foa), che – sia pure generalmente salutati, nei libri di storia, come una benefica riconciliazione, la sutura di un’amara ferita – rappresentarono invece il solenne e definitivo affossamento dell’idea (che, pur storicamente vittoriosa, era comunque sempre rimasta, nel “Paese reale”, élitaria e minoritaria) dello Stato liberale, che muore nel 1929, per mai più risorgere. Il liberalismo non solo non avrebbe avuto alcun bisogno di un concordato con una Chiesa, ma mai lo avrebbe tollerato. Uno Stato liberale garantisce a tutti i suoi cittadini piena libertà di culto, ma non ‘tratta’ con le Chiese “da potenza a potenza”, cedendo consistenti fette di sovranità, in cambio non si sa di cosa.
Se lo Stato liberale, nato e cresciuto contro il potere ecclesiastico – abbattuto, a Porta Pia, con la forza delle armi – aveva dunque considerato una scelta obbligata e naturale quella di proteggere le sue minoranze, non c’è da meravigliarsi se il nuovo Stato clericale, nato nel ‘29, avrebbe preso una strada diversa, fino all’ignominia del 1938. L’importante questione del dialogo ebraico-cristiano – volto a promuovere, fra mille difficoltà, la possibilità di un rapporto di mutua comprensione e reciproco riconoscimento fra le due religioni – non deve oscurare l’altro fronte di impegno, che non può non coinvolgere chiunque – cattolico, ebreo, non credente – abbia a cuore la tutela di ogni minoranza, ideologica, religiosa, nazionale, etnica, o di altro tipo: la difesa dei vecchi valori risorgimentali di laicità, di un’idea dello Stato come “casa comune” di tutti, nella quale tutte le identità, tutte le razze e tutte le religioni abbiano identico diritto di cittadinanza, e nessun simbolo, di nessuna presunta maggioranza, debba essere considerato “più uguale” degli altri.

Francesco Lucrezi, storico