Di fronte alla “questione Rom”

L’elemento che, a mio modo di vedere, mostra nella maniera più evidente la mancanza di una elaborazione da parte del mondo occidentale di una cultura post-Shoà, è la cosiddetta “questione rom”, che la tragica morte dei quattro bambini nel campo di Roma ha riportato alla luce. A mio parere, va anzitutto rimarcato il nobile gesto del Presidente Napolitano, che, andando personalmente ad abbracciare i genitori delle vittime ha mostrato di riconoscere nel loro dolore il dolore di qualunque madre e padre, allontanando l’immagine di un’etnia assolutamente altra dalla nostra, con cui si rivela necessariamente vano ogni tentativo di individuare un punto di conciliazione. Noi ebrei, però, sappiamo bene che il riconoscimento di tratti comuni non è sufficiente per la costruzione di una convivenza simmetrica, e che, anzi, se non riflettuto, può rivelarsi un atteggiamento dietro cui si cela il rischio dell’assimilazionismo. Per costruire una relazione di reciprocità è, infatti, condizione necessaria confrontarsi anche con i gli elementi di differenza che definiscono l’identità dell’altro nella sua distanza dalla nostra. Osservando il dibattito politico europeo degli ultimi anni, non pare che questo passo sia stato fatto, vedendo come elettoralmente abbia pagato la demonizzazione dello stile di vita del mondo rom, che, tra l’altro, le generazioni post-belliche non hanno forse mai conosciuto, se non immensamente deviato dalla condizione di marginalità in cui è stato relegato.
Il mio maestro di Torà, Haim Baharier, mi ha insegnato che i Bne’ Israel, all’uscita da Mizraim hanno sostato quarant’anni nella “parola” (come noto, midbar condivide la radice semantica con davar) proprio per elaborare un nuovo linguaggio che eliminasse da sé ogni residuo di quella logica eslcudente e schiavista che stava a fondamento delle piramidi egizie. Il rapporto istituito fra la coscienza civica europea e le comunità rom e sinti, le condizioni di vita in cui le amministrazioni locali troppo spesso le costringono a vivere, sembrano dimostrare che uno sforzo simile non è stato fatto durante il dopo Auschwitz (va sempre ricordato che nelle camere a gas naziste sono morti cetinaia di migliaia di cosiddetti “zingari”). Credo, inoltre, che, viste le reazioni del Presidente Gattegna e le iniziative comuni realizzate dalle comunità ebraiche e rom negli ultimi anni, indichi un percorso che, si spera, potrà essere seguito ed alimentato. Anche perché si sa, Prima di tutto vennero a prendere gli zingari. E fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei…

Davide Assael, ricercatore