Davar Acher – Perché tacere, perché parlare

Gli sconvolgimenti politici in corso nel mondo arabo determineranno probabilmente notevoli cambiamenti per la vita di tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo e dunque naturalmente ci colpiscono tutti.
Ma ci riguardano “come ebrei”? Dev’esserci una presa di posizione ebraica su questi temi? E’ una domanda su cui vale la pena di riflettere, anche perché spesso di fatto ci viene posta, con due possibili estensioni. Da un lato molti ci chiedono, ebrei e non ebrei, che ci siano delle prese di posizione dell’ebraismo italiano su temi interni come la crisi politica in corso, o addirittura la definizione dell’identità nazionale italiana. Gli ebrei sono pochissimi rispetto all’elettorato generale, ma sono spesso corteggiati da politici che ci chiedono legittimazione se non proprio approvazione, per le loro politiche. Dall’altro canto, sulla politica internazionale ci si chiede di prendere posizione “indipendentemente dagli interessi nazionali di Israele”. E’ comprensibile, ci vien detto, che Israele preferisca la continuità di regimi con cui ha stretto accordi di pace che non hanno prodotto grandi risultati in termini di amicizia e conoscenza fra i popoli, ma almeno hanno garantito che non ci fossero attacchi militari, come accadeva nei primi decenni della sua esistenza. Ma gli ebrei, che non sono uno stato ma una religione attaccata all’etica, non debbono appoggiare le rivolte contro i dittatori, senza farsi impaurire troppo dalle loro conseguenze?
Insomma, l’ebraismo, anche un ebraismo numericamente molto limitato come quello italiano, dovrebbe prendersi l’incarico di parlare anche sui problemi politici che non lo investono direttamente, provando a farsi “luce fra le nazioni”, come suona l’antica profezia? Io non credo. E non solo per l’antica prudenza che le comunità della Diaspora hanno imparato nei secoli ad applicare. Né perché le comunità sono ovviamente divise al loro interno per orientamento politico e sono pochi i temi su cui si potrebbe raggiungere un consenso sufficientemente vasto. E neppure infine perché obiettivamente di queste crisi sappiamo ancora poco, non conosciamo bene la causa scatenante delle rivolte, la loro reale organizzazione, tanto meno l’assetto conclusivo che raggiungeranno.
Il problema vero è che, in quanto ebrei, oggi noi non siamo davvero liberi nelle nostre società e probabilmente non lo saremo mai, contro tutte le illusioni assimilazioniste. In quanto cittadini sì, siamo certamente liberi, almeno fino a che l’aspetto ebraico non venga tirato in ballo; ma in quanto ebrei siamo soggetti a una pressione storica che continua dai tempi dell’antisemitismo esplicito e che non è affatto conclusa. Le stesse richieste di pronunciarci, il modo in cui funziona l’identificazione “buona” fra ebraismo e Shoà (in quanto contrapposta all’altra identificazione, quella “cattiva” fra ebraismo e Israele), ci toglie libertà. Il mondo cattolico ci interpella secondo un paradigma analogo, amandoci come vittime, trattandoci nel migliore dei casi con diffidenza come soggetto politico internazionale (Israele), coltivando un’ambigua parentela (i “fratelli maggiori” che nella narrazione biblica sono sempre destinati a essere spodestati).
Noi non solo non siamo in grado di farlo, ma sbaglieremmo proprio ad accettare la posizione di libero soggetto politico collettivo, a maggior ragione di giudici della città. Perché in quanto ebrei, in quanto popolo, questa posizione non verrebbe accettata, se non in quanto coincidente con le posizioni di una certa parte. Questo è vero nel quadro nazionale, ma ancor di più in quello internazionale. Il nostro spazio di libertà autentica come ebrei è Israele; noi, collettivamente, in quanto ebrei, non possiamo giudicare senza tener conto di questo fatto. Chi lo fa a titolo individuale esercita un suo diritto e magari anche un dovere di cittadino, ma si pone in un certo senso fuori dalla condizione ebraica, la delimita dentro di sé a un dato secondario rispetto alla sua definizione politica, al suo prendere partito nella città.

Ugo Volli