identità…

Conoscere le proprie origini è un diritto su cui si discute molto. Un figlio adottato potrebbe voler conoscere chi erano i suoi veri genitori; una persona concepita con procedure “medicalmente assistite” potrebbe voler sapere chi era il suo padre biologico o la madre che ha offerto l’ovulo o l’utero. Qualche volta gli interessati ignorano del tutto di essere figli di genitori diversi da quelli che li hanno cresciuti; altre volte lo sospettano o ne sono consapevoli, ma non desiderano affatto fare delle ricerche. Si prospettano drammi, crisi di identità, equilibri da distruggere e ricostruire. Ma pensiamo a un’altra eventualità, quella dei bambini scampati alla Shoah, nascosti in conventi, battezzati e mai restituiti a quello che rimaneva delle loro famiglie o comunità originarie, spesso lasciati ignari delle loro origini. Certo per loro, ormai settantenni, sarebbe un trauma mettere in discussione la loro storia; al qualcuno non gliene importerebbe niente, ad altri sì. Se sono donne, i loro figli sarebbero inconsapevolmente ebrei. Per noi è importante che questa verità venga a galla, anche se sempre più lontana. Perché dietro c’è una storia di violenza (la persecuzione) su cui si è sovrapposto un atto di solidarietà (il rifugio) trasformato in un’altra violenza, seppure differente (la negazione dell’identità). Fa impressione il fatto che la Chiesa, salvo rare eccezioni (un caso è quello del giovane prete Wojtyla) abbia spesso rifiutato di collaborare seriamente su questo punto; a 13 mesi dalla nuova richiesta fatta a papa Benedetto XVI (in occasione della sua visita alla Sinagoga di Roma) non c’è stata alcuna risposta decisiva. Talvolta nascondere a qualcuno le sue vere origini può essere un atto di misericordia; ma nel caso dei bambini ebrei battezzati la reticenza e il silenzio sono solo il segno dell’incapacità di rapportarsi all’ebraismo in modi non conflittuali.

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma