Qui Milano – Ottolenghi: “La sfida della democrazia”
Una mancanza di reazione potrebbe costituire un errore fatale. Le democrazie occidentali farebbero bene ad agire velocemente per aiutare le rivoluzioni che stanno cambiando il volto del Medio Oriente a prendere forma. E’ questo il monito di Emanuele Ottolenghi (nell’immagine), senior fellow alla Foundation for Defence of Democracies, lanciato a una serata milanese del gruppo di studi Keshet. “E’ entusiasmante applaudire la caduta dei dittatori dagli spalti. Ma ora, mentre i paesi cadono come birilli, c’è da temere che i soli gruppi nella regione con una strategia siano le forze radicali islamiche. E quando la situazione si sarà calmata saranno le uniche a emergere se l’Occidente resterà neutrale”.
“Gli europei tentennano”, ha detto Ottolenghi, che lavora a Bruxelles per il centro di ricerca statunitense. “Per anni la loro politica per il Medio Oriente li ha visti anzitutto divisi tra la necessità di costruire un fronte comune con gli Stati Uniti e la tradizionale simpatia popolare per i palestinesi nel conflitto arabo-israeliano. Difettano – ha incalzato Ottolenghi – di un pensiero strategico. Contemporaneamente, la maggior parte dei paesi arabi esprime due obiettivi, la sopravvivenza dei loro regimi e il contenimento dell’Iran. Anche loro non hanno strategie. Le sole a pensare strategicamente sono le forze radicali in Iran, Siria e Hezbollah, perché vedono un’opportunità di rafforzare la loro posizione. Queste forze radicali si stanno ammassando e l’Iran fornisce loro protezione”.
Ottolenghi ha affermato che le recenti ondate rivoluzionarie che hanno scosso la Tunisia, l’Egitto e la Libia “non sono sollevazioni democratiche”. “Si tratta di popolazioni disperate che invocano una vita migliore, per un governo più giusto, per maggior trasparenza e opportunità. E’ sicuramente uno sviluppo incoraggiante. Le priorità di un governo nuovo possono cambiare. Se la sua attenzione è rivolta a creare lavoro, scuole e ospedali, ad esempio, potrebbe dedicare meno risorse a programmi nucleari clandestini”.
“Ma, perché non siamo davanti a una reale svolta democratica come siamo abituati a conoscerla, la situazione è fragile e dobbiamo chiederci quali saranno le conseguenze se l’Occidente non si schiera. Preferiamo rimanere neutrali – ha detto – ma la neutralità non è davvero neutrale oggi. In Libia aiuta Gheddafi. I ribelli libici hanno chiesto una ‘no fly zone’, ma i Paesi occidentali si sono rifiutati”. “Se il Sudan, l’Iraq e la Siria sono i paesi che forniscono ai ribelli le armi e li aiutano – ha denunciato – ci saranno conseguenze di lungo termine. Non schierarsi è miope, con mezzi finanziari e forse anche militari, con le forze che sono più vicine al nostro modo di pensare. Le democrazie occidentali non dovrebbero abbandonare l’avanzata di queste rivoluzioni senza un contributo”.
Un golpe estremista avrebbe ripercussioni maggiori in alcuni paesi rispetto ad altri. Se il Bahrein, dove si trova la Quinta flotta americana, dovesse cadere in mano a un partito sciita islamico vicino all’Iran, gli Stati Uniti potrebbero esse costretti a una risposta militare.
“Il paese dove una rivoluzione sarebbe più auspicabile – ha aggiunto Ottolenghi – è anche quello dove la scintilla del cambiamento appare più debole nonostante significative proteste. In Iran occorre sostenere l’opposizione. Invece gli Stati Uniti hanno promesso di non approfittare della situazione per aumentare le pressioni su Teheran”. Ottolenghi ha suggerito che il regno di terrore e lo stato di polizia, assieme alla memoria della passata rivoluzione seguita da otto anni di sanguinosa guerra, ha reso anche l’opposizione riluttante a parlare apertamente di rivoluzione.
L’Iran è una delle ragioni per le quali Ottolenghi avrebbe voluto che Natanyahu estendesse il congelamento degli insediamenti. Una simile scelta potrebbe consolidare il sostegno di alleati statunitensi e europei a Israele in caso di minacce da Teheran. Ma non ritiene questa diplomazia poco sensibile responsabile né di una percezione critica nei confronti dello stato ebraico da parte dei media, né della paralisi dei negoziati di pace. “Esistono piuttosto – ha affermato – ancora troppi accademici e intellettuali che non ritengono Israele abbia il diritto di esistere, che credono sia illegittimo e illegale. E lo stanno insegnando alle nuove generazioni. Questo problema rimarrebbe anche se Netanyahu si esprimesse al meglio”.
Jill Goldsmith