Musica e identità
Qualche tempo fa alcuni giovani ebrei veneziani con aspirazioni giornalistiche avevano iniziato la pubblicazione di un notiziario dal titolo scherzoso e provocatorio: “el Berid”. Un nome vagamente arabeggiante per i normali lettori, che tuttavia i più attenti osservatori giudicarono dissacratorio. La parola ebraica Berith=patto, alleanza, è biblicamente associata alla circoncisione (Brith milà), e in giudaico veneziano la distorsione dialettale Berid stava (e sta, nei pochi che ancora ne fanno uso) a indicare un organo specificamente maschile che in alcuni leader politici spesso si sostituisce a determinare azioni che dovrebbero di regola essere guidate dal raziocinio. La scelta del titolo del notiziario, che ebbe vita piuttosto breve, voleva dar conto di una dimensione linguistica propria di un gruppo piccolo – la Comunità ebraica veneziana – che si dibatteva fra fedeltà a una tradizione popolare e ironica e un vento di rigorismo religioso che si poneva a volte in aperta dissonanza con usanze magari non proprio in linea con lo Shulchan Aruch.
Il dibattito sull’identità dell’ebraismo italiano non può limitarsi al ruolo che le comunità e i singoli ebbero nella costruzione dell’Unità d’Italia, ma deve anche confrontarsi con una dimensione più specifica di realtà locali che hanno costruito relazioni sociali e legami anche molto forti con il tessuto delle cento città della Penisola. Un approccio, si dirà, localistico, al limite del “leghismo”. Eppure è una realtà di cui bisogna tenere conto perché il modo in cui gli ebrei hanno vissuto e interpretato il loro cammino nella storia è parte integrante della costruzione di quell’esperienza globale che chiamiamo civiltà ebraica. Ne è esempio eloquente il dibattito che si va accendendo in questi giorni attorno a un interessante progetto di recupero delle musicalità che hanno accompagnato la liturgia nelle sinagoghe del ghetto di Venezia. E’ assodata la necessità di documentare con registrazioni i vari riti (minhaghìm) seguiti dalle differenti ‘edòth che hanno popolato Venezia nei secoli, ed è assicurata l’esigenza di catalogare e mettere a disposizione degli studiosi le decine di spartiti originali che venivano interpretati dal coro e dall’organo nel corso di un ‘800 portatore di forti innovazioni (spesso non sopravvissute alla prova del tempo); ma nel dar seguito alla ricerca scientifica, è consentito o meno procedere a esecuzioni pubbliche in forma di concerto in sinagoga (escludendo lo shabbath e mo’adìm)? Un dibattito, si badi bene, assai antico in Italia: se ne discuteva già nel ‘600 fra Mantova e Venezia. Ma oggi il dibattito si accende fra chi ritiene opportuno selezionare nella storia del passato ebraico quei soli elementi che siano funzionali al nostro modo di interpretare l’ebraismo oggi, e chi invece ritiene che tutte le esperienze ebraiche (specie quelle a dimensione locale) vadano comunque preservate e valorizzate come patrimonio prezioso. A me sembra sia da preferire la seconda ipotesi.
Gadi Luzzatto Voghera, storico