Prospettive di pace, fra fantasia e realtà

La mostruosa, ripugnante strage di Itamar, nella quale sono stati sgozzati bimbi inermi di pochi anni e pochi mesi, richiama l’attenzione sul dibattito e le polemiche recentemente sollevate dalla pubblicazione non autorizzata dei cosiddetti “Palestinian Papers” (ossia i documenti riservati in cui sarebbero stati fissati alcuni possibili punti di compromesso, su cui le due parti impegnate nei colloqui di pace – governo israeliano e Autorità palestinese – avrebbero già dimostrato, ciascuna nel proprio ambito, una disponibilità di massima riguardo alle concessioni da fare reciprocamente). I sommovimenti in atto in diversi Paesi arabi sembravano aver fatto passare in secondo piano le pubbliche reazioni a tale divulgazione, ma oggi esse sembrano tornare, di fronte al sangue innocente versato, di drammatica attualità, altamente indicative riguardo alla valutazione della concreta possibilità di giungere, prima o poi, a una qualche forma di accordo di pace.
La generale ‘vulgata’ del contenuto di tali documenti, infatti (iniziata da un paio di articoli americani, e poi immediatamente, acriticamente dilagata in tutto il mondo), è stata quella di una eccezionale disponibilità al compromesso che sarebbe stata dimostrata dalla parte palestinese (in particolare, riguardo all’accettazione alla permanenza, in Cisgiordania, di alcuni insediamenti, in cambio di altre concessioni territoriali), che starebbe quindi automaticamente, irrefutabilmente a dimostrare – in ragione dell’impasse negoziale – una speculare rigidità da parte d’Israele, unico vero responsabile del mancato raggiungimento di un accordo. Una ‘vulgata’ che, nella generalità dei commenti da parte araba, si è trasformata nell’univoca, vibrante denuncia della ‘svendita’ della causa palestinese che sarebbe stata ordita dai negoziatori di Abu Mazen e Salam Fayyad, additati come “servi degli americani e degli israeliani” per il solo fatto di avere negoziato con il gabinetto di Olmert. Accuse, naturalmente, respinte con sdegno dagli interessati, i quali si sono affrettati a smentire ogni fondamento alle accuse di “cedimento al nemico” – negando la veridicità dei documenti, e attribuendone la paternità ai servizi segreti israeliani -, ma senza potere con ciò arrestare un immediato crollo di consensi e credibilità, a vantaggio delle forze più radicali. Ed è esattamente in questo contesto che si inserisce l’orrore di Itamar, come a dire: questo, e solo questo, deve essere il modo di “trattare”.
Personalmente, da quel po’ che abbiamo capito dei contenuti dei Papers, veri o falsi che siano, non ci è per niente sembrato che essi contemplassero delle rinunce unilaterali per i palestinesi, o più penalizzanti per loro rispetto alla controparte. Basterebbe considerare che i documenti avrebbero accettato il principio di una spartizione di Gerusalemme – certamente non facile da accettare per i cittadini israeliani, anche i più pacifisti e inclini al compromesso -, e non avrebbero posto alcun ostacolo sulla strada del tanto agognato – almeno a parole – “Stato palestinese”. Ma non è questo il punto. Ciò che, come abbiamo detto, rende assolutamente pessimisti riguardo all’esito finale del negoziato è l’assenza, in tutto il mondo arabo, di una sola voce – che sia una – improntata a un sia pur parziale, ipotetico, condizionato apprezzamento del tentativo di compromesso. Il commento prevalente, se non unico, è stato infatti quello ricordato, sintetizzabile nella semplice parola “tradimento”. Un rifiuto che non appare per niente rivolto contro qualche specifico contenuto degli accordi (non ce ne sarebbe stata alcuna ragione), ma, in sostanza, contro il fatto stesso di avere negoziato, o, almeno, aver mostrato di farlo. E se, da una parte, l’idea stessa della trattativa appare rigettata con esecrazione, da pressoché tutti i commentatori arabi, ben diversa (minoritaria, ambigua, esitante) è apparsa la condanna della strage.
Un quadro fosco e desolante, nel quale le prospettive di pace mostrano una concretezza pari allo zero.

Francesco Lucrezi, storico