Qui Milano – Parlando di Unità d’Italia

Tanti interrogativi sono emersi nella serata organizzata dalla Comunità ebraica di Milano e dal Dipartimento educazione e cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, con la partecipazione del direttore del Dec rav Roberto Della Rocca, di Dario Calimani, professore di Letteratura inglese dell’Università di Venezia e di Ugo Volli, professore di Semiotica all’Università di Torino, in un dibattito moderato dal direttore del Dipartimento informazione e cultura dell’Ucei Guido Vitale. D’altronde non poteva essere altrimenti in una serata dal titolo “Gli ebrei e l’Unità d’Italia. Ebrei per caso, per necessità o per scelta?”.
Proprio questo era l’obiettivo, “discutere dei 150 anni dall’Unità d’Italia non tanto in prospettiva storica, quanto interrogandoci sul significato che assume questa ricorrenza per noi, in quanto ebrei italiani” ha spiegato l’assessore alla Cultura della Comunità Daniele Cohen, presentando l’incontro.
La riflessione ha preso avvio guardando alla festa di Purim ormai alle porte, che ha per protagonista “una grandissima comunità nella Diaspora e per questo motivo ci insegna molto – ha spiegato rav Della Rocca – Mordechai e Giuseppe sono le rappresentazioni più perfette dell’ebreo della diaspora, che ne vive intensamente la società fino a raggiungerne i vertici. Eppure e tragicamente, la Torah ci dice che ‘Arrivò un Faraone che non aveva conosciuto Giuseppe’ e tutto cambiò per il popolo ebraico. Proprio come avvenne in Italia nel 1938”.
Già perché la storia dell’ebraismo in Italia dall’emancipazione raggiunta a metà Ottocento, fino alle leggi razziste, testimonia l’incredibile energia che gli ebrei riversarono nella società appena ebbero la possibilità di farlo. “Gli ebrei furono politici, militari, scienziati, industriali. Contemporaneamente però si perse la consapevolezza del valore di una vita ebraica e comunitaria. E forse la valorizzazione della cultura ebraica è qualcosa cui dovremmo prestare una maggiore attenzione anche oggi” ha sottolineato il professor Volli.
Tra il passato e il presente dell’ebraismo italiano emerge infatti una soprendente continuità. “Nel 1863 le realtà ebraiche d’Italia di ritrovarono per la prima volta a congresso – ha raccontato Guido Vitale – Parlarono di formazione rabbinica, di finanziamenti pubblici e di come impiegarli, parlarono di stampa ebraica. Problemi su cui discutiamo ancora oggi”.
La riflessione di Dario Calimani poi si è spinta oltre. “Che cosa significa essere ebrei ed essere ebrei italiani? È una domanda che mi pongo continuamente. Perché nella nostra identità sono penetrati due elementi che hanno cambiato per sempre la storia dell’ebraismo: la Shoah e lo Stato d’Israele. E tuttavia l’essere ebreo non può esaurirsi nel ricordare la Shoah e nell’amare Israele. Per essere ebrei dobbiamo continuare a muoverci e a interrogarci, sulla nostra identità, ma anche sul contributo che possiamo dare alla società civile, partendo dai nostri valori” ha concluso il professore.
“Molti ritengono che esista un’ambiguità, una sorta di doppia fedeltà nell’essere ebrei e cittadini di uno Stato. Ma questa è una lettura sbagliata – ha puntualizzato rav Della Rocca – Abbiamo il dovere di essere buoni cittadini contribuendo al benessere del Paese in cui viviamo. Evadere le tasse equivale a trasgredire una qualsiasi mitzvah. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare di essere vincolati a un patto diverso, e che proprio da questo può derivare il nostro più prezioso contributo alla società”.

Rossella Tercatin