Davar Acher – Legalità e giustizia

Uno degli aspetti caratteristici del nostro tempo, su cui filosofi e sociologi non hanno certamente ancora discusso a sufficienza, è la progressiva giuridificazione della vita nella società contemporanea. La potenza dominante su cui misurare il senso e il valore di attività, movimenti e persone non è più da tempo la religione e neppure l’ideologia; ricchezza e potere restano naturalmente obiettivi largamente perseguiti ma non sono valori accettati come fondanti e socialmente validi, anzi; dell’onore si è persa ogni traccia; la popolarità è molto postmoderna e certamente ambita ma tutti sappiamo che non conta davvero, non può essere il valore di base; resta dunque come valore sociale fondativo la retorica dominante della legalità. La sua prevalenza non è un fenomeno limitato al nostro paese, dove la funzione di supplenza (o per altri versi l’invadenza) della giustizia negli snodi più delicati della convivenza civile è evidente. Tutto il mondo occidentale e le grandi tribune internazionali si affidano alla legalità come criterio di valore. Dire che una persona o un’organizzazione persegue come regola di vita il volere del cielo o l’onore nazionale oggi farebbe ridere i più; il riscatto degli oppressi appare un obiettivo patetico o sospetto, il guadagno inaccettabile. Fare ciò “è giusto” o “legale” invece appare a tutti importante e fra i due termini prevale il secondo: gli interventi umanitari internazionali sono stati anche di recente dilazionati in attesa di una loro legalizzazione da parte di organizzazioni come l’Onu, i cui pregiudizi politici sono chiari, ma che nondimeno valgono come fonte di legalità. Nella politica internazionale le guerre non solo si concludono in un’aula di tribunale (pratica iniziata a Norimberga e poi spesso emulata all’Aia) ma vi iniziano anche o ne vengono sostituite: questo è evidente per esempio nel mandato di cattura spiccato su Gheddafi per compensare l’inerzia politica dell’Occidente, per non parlare dei numerosi atti di lawfare (guerra giudiziaria) di cui è oggetto Israele negli ultimi anni.
A parte questo aspetto certamente perverso ma laterale, si potrebbe pensare che tale prevalenza della dimensione giuridica su quella politica possa riuscire congegnale alla nostra tradizione culturale, che ha sempre inteso nella Legge la propria espressione più alta e ha speso le sue migliori energie intellettuali nella sua discussione, applicazione, approfondimento. Io credo che questo sarebbe un errore. Perché la Legge ebraica è il dispiegamento concreto di un progetto religioso, trasforma in forma di vita un certo modo di concepire la divinità e l’umanità; mentre l’attuale giuridificazione universale si propone come essenzialmente procedurale (si pensi a Rawls e Habermas) e dunque non risponde ad alcun progetto religioso o politico o sociale, anzi li nega tutti. Che poi la procedura con cui si stabilisce la legge internazionale sia molto poco chiara e anche i suoi contenuti discutibili, come si è visto abbondantemente nel caso di Israele, importa poco ai suoi difensori. Il primato della legalità, intesa come amministrazione della legge estesa a tutto e tutti, toglie validità a ogni ideale che non sia il rendere giustizia e l’obbedire alle regole. Non vi sono altri scopi condivisi.
Il problema è che questa prospettiva è distruttiva, fin nel suo remoto primo slogan (“fiat justitia et pereat mundus”). I conflitti non sono di forma ma di sostanza e spesso sono semplicemente inconciliabili (ed è per questo che di solito la giuridificazione si accompagna a un sentimentalismo un po’ dolciastro, il “buonismo” che pensa su tutto ci si possa accordare con un po’ di buona volontà, o su tutto giudicare in termini di torti e ragioni. Di fatto e paradossalmente, il primato esasperato della legalità, come viene inteso oggi in Occidente, agendo solo sugli stati democratici, lascia le mani libere ai nemici delle sue stesse basi, difende i terroristi e incolpa chi li combatte, come si è visto nel caso di Hamas e Hizbullah.
Anche da questo punto le nostra Scritture ci insegnano un’altra storia. La Terra di Israele è conquistata e mantenuta con guerre che talvolta hanno un andamento assai violento; con alcuni popoli l’accordo è semplicemente precluso. Come ha detto con terribile lucidità Walter Benjamin la violenza ha talvolta un carattere fondante. Naturalmente non intendo criticare la giuridificazione in nome della legge della giungla; penso che però che sia urgente ritornare a una difesa del progetto, della sostanza politica, della visione secondo cui ci si muove e non solo delle sue forme. Il primato legalitario spesso si accompagna nel mondo ebraico a un universalismo altrettanto sbilanciato: soprattutto negli Stati Uniti non manca oggi chi pensa che non bisogna valutare il progetto dello stato di Israele, ma la sua legalità e che bisogna per questo essere più severi con Israele che con gli stati arabi – cosa che peraltro avviene continuamente, per esempio in materia di diritti umani. E’ un grave errore, una forma di discriminazione non meno grave di quella che un secolo fa ha fatto assumere a molti ebrei europei il punto di vista dei propri nemici, per esempio nel disprezzare l’ebraismo orientale e nel non riconoscerne i tesori spirituali.

Ugo Volli