“Yes, we can”

Da ogni parte si sentono critiche all’amministrazione Obama, alimentate ulteriormente dall’atteggiamento assunto nei confronti delle rivolte nei Paesi arabi: Obama è stato ingenuamente sedotto dalle piazze ricolme di giovani sotto i trent’anni (a me pareva che la retorica della libertà avesse contraddistinto altre amministrazioni, quelle, per intenderci che hanno titolato le proprie missioni enduring freedom), invece di fare chiacchiere Obama dovrebbe intervenire proclamando una no-fly zone e, perché no, già che ci siamo inviare un contingente militare per stanare Gheddafi. Poi, naturalmente, deve uscire in modo vincente dagli scenari afgani e iracheni sanando conflitti che solo le più feroci dittature avevano tenuto nascosti (vedi Saddam). Ed anche, riequlibrare le relazioni con Russia e Cina, anch’esse minate dagli otto anni bushani, affrontare il problema iraniano, e risolvere il problema dell’inquinamento globale, pulire l’Oceano rovinato dai pozzi petroliferi della BP, scongiurare il disastro nucleare in Giappone, aiutare Haiti, risolvere la crisi della finanza globale, tenere sotto controllo il deficit USA… Io mi domando come si faccia a pensare cose simili senza farsi cogliere da una sensazione di vertigine, che, perlomeno, dovrebbe spingere a riconsiderare le proprie posizioni alla luce di uno scenario più complessivo. A maggior ragione, quando ci si accorge che la stessa amministrazione è accusata anche dell’opposto di quanto elencato adesso.
Ampliando la critica, analoghe considerazioni vengono rivolte all’Unione Europea, che qui tralascio, per rispettare il vecchio adagio di non sparare sulla croce rossa, ma che aiuta a comprendere che Gli Stati Uniti sono sul banco degli imputati anzitutto come espressione (forse unica) della politica internazionale dell’Occidente. Io penso che il vero dato da considerare sia che tutti noi che abitiamo la parte Ovest del mondo non siamo riusciti ad elaborare una politica post guerra fredda, rimanendo legati al mito della nostra superiorità, alla base delle peggiori politiche imperialiste ed, ancor prima, dei più feroci processi di evangelizzazione. Oggi come oggi gli Usa (e tantomeno l’Europa) non possono decidere alcunché senza il consenso di attori come Russia e Cina. Immaginate quali reazioni susciterebbe un’invasione Nato sul territorio libico che andasse a contrastare gli interessi energetici di Putin o le ambizioni africane della Repubblica popolare. Come unico risultato otterrebbe lo spostamento di investimenti verso Est (Gheddafi ha già convocato gli ambasciatori russi e cinesi), con una infinita serie di corollari. Figuriamoci poi se l’Occidente potrebbe riscrivere da solo le regole della finanza globale quando la Cina è anni che porta avanti lo slogan, ”come, ora che noi ci siamo adeguati al vostro gioco, voi volete cambiare il modo di giocare?” E così per qualunque decisione si voglia prendere. La realtà è che, rimasti orfani del polo sovietico, il mondo ha affidato agli Usa il ruolo di sceriffo globale, chiedendo loro di intervenire in ogni crisi, ignorando il fatto che altri soggetti avevano ormai avviato canali commerciali che avrebbero modificato strutturalmente gli equilibri politici del pianeta. Una miopia assurda, sorretta da acrobazie intellettuali che parlavano di fine della storia e di pax americana. Quest’onere, naturalmente, è caduto anche sulle spalle di W. Bush, la cui amministrazione, a mio giudizio, ha però commesso l’abbaglio di sviluppare una politica unilaterale che i tempi avrebbero condannato in partenza. Non temo di affermare che nell’ottica di un superamento di logore categorie politiche, al mondo non poteva accadere cosa migliore di un Presidente che si è esplicitamente proposto come punto di superamento degli opposti (tanto da incassare critiche da ogni fronte), inaugurando un nuovo corso diplomatico (se avessimo tentato prima di stabilire nuovi rapporti politici rafforzando gli organi sovranazionali, lo avremmo fatto a partire da una posizione di forza. Ora ci tocca trattare col cappello in mano). Mi fanno ribrezzo le critiche volte a mantenere lo status quo, rendendo vano lo sforzo di costruire qualcos’altro rispetto a quanto ereditato (da chiunque provengano, anche dal mondo ebraico), che, a mio giudizio, fanno il paio con le parole dei vecchi leaders come Mubarack, il quale, nel momento più caldo della contestazione egiziana, così si era sostanzialmente espresso: “Obama è una brava persona, ma non capisce niente di quanto avviene qui, è giovane e ancora inesperto.” Due giorni dopo sarebbe stato cacciato a calci dalla sua gente. Aveva capito lui, il ladro ultramiliardario che ha rubato al suo popolo, sorretto dall’Occidente, mentre pianificava affari con gli altri. Non è Obama il problema, ma le terribili forze conservatrici sparse per il mondo (ed anche Israele dovrebbe pensare bene se le convenga seguire un orizzonte di pace col mondo islamico o l’idea di un equilibrio fondato su rapporti di forza oggi molto cambiati). Nonostante le oggettive incognite e le terribili difficoltà, io dirò ora e sempre, “Yes, we can”. Chiamatemi idealista, io vi chiamerò cinici.

Davide Assael, ricercatore