La sobrietà non fa spettacolo

C’è una categoria dell’intrattenimento televisivo – non particolarmente nuova, per la verità – che da qualche tempo sembra godere di particolare fortuna. Affermate trasmissioni di prima e seconda serata, nonché una quantità di affollati talk show pomeridiani, propongono con insistenza assolutamente bipartisan il medesimo modello: discussioni di gruppo su casi di delitti particolarmente efferati o di violenza estrema. Parlo di intrattenimento non a caso, ma per la ragione che in molti di questi programmi non è più questione di doverosa informazione, quanto più possibile precisa e ampia, bensì di spettacolarizzazione, scoperta e quasi dichiarata. L’obiettivo, in altri termini, non è più quello di fornire nuovi contenuti, quanto la ricerca di una moltiplicazione degli effetti emotivi, sensazionalistici, retorici. Il setting è tipicamente costituito da esperti, veri nonché televisivamente ben rodati e smaliziati, ma soprattutto dai personaggi più vari, presuntamente elevati allo stesso rango, ma il cui ruolo sembra essere in realtà quello di rappresentare l’apoteosi del luogo comune, l’idealtipo dei discorsi da autobus. Insieme, e coralmente, gli uni e gli altri ripetono all’infinito il già detto, insistono su particolari minuti e spesso irrilevanti dilatandoli senza limiti, esibiscono con commozione compunta gli aspetti più intimi e crudi, voltano e rivoltano il “caso” alla ricerca estenuata di qualcosa: se l’ipotesi di uno scoop in termini di informazione è obiettivamente difficile – considerata la “copertura” che la notizia ha già ricevuto – che sia almeno ricerca dello scoop emotivo, dello spettacolo, appunto. Dunque dell’affermazione più toccante, dell’”analisi” più carica di “sentimento”, della retorica più dolciastra, dell’osservazione più struggente. L’orrore – insomma – diventa gossip. Con contenuti diversi, ma con formato e codici identici a quello che si concentra sulle avventure vere o inventate di personaggi famosi.
Non è facile interpretare il fenomeno, a parte il riferimento all’esigenza commerciale di ampliare la audience di un prodotto che, semplicemente, si vende bene, e non pretenderò di farlo in questa sede. Alcuni elementi, però, possono essere oggetto di riflessione. Probabilmente, vi è innanzitutto un’ansia di metabolizzazione: parlarne e ri-parlarne assicura (in fantasia) una forma di elaborazione, di controllo, di riconduzione al quotidiano di fatti che sono, al contrario, il rivolgimento più drastico della quotidianità. L’esibizione pubblica di buoni sentimenti ha una confortante funzione di rassicurazione, tanto più in tempi di allarme sociale, diffuso e di diversa origine. La coralità dello spettacolo si presta ad essere intesa come solidarietà, condivisione, sollecitudine. Come in una seduta collettiva di psicoterapia, inoltre, l’analisi infinita permette di dare voce ad ogni forma di rimosso, con l’ambiguità e la duplicità che gli è propria. Essa autorizza ogni voyerismo, rende dicibile ogni ambivalenza, con la giustificazione tranquillizzante dell’interesse e della partecipazione. Quello che si consuma in questi casi è insomma una sorta di rito pubblico di purificazione, cura (inautentica ed improbabile) di una parte malata dei nostri tempi.
Ma, infine, vi è una ulteriore caratteristica di formato da mettere in evidenza, e che ha a che fare con il ruolo reciproco degli esperti che intervengono con il loro sapere specializzato, e gli “altri”. Sono questi ultimi, infatti, ad avere di solito lo spazio maggiore nello show, coadiuvati dagli spezzoni di intervista a “persone della strada” sapientemente intercalati nel programma. Come per una sorta di rivincita rispetto alle specializzazioni accreditate, la tendenza è precisamente quella di realizzare una omologazione “in basso”, sul terreno del sentire comune. Funzione latente di tutto ciò, direbbe il sociologo, è quella di creare ed esibire una condivisione generale, trasversale, immediata, “nazional-popolare”: una forma, insomma, di anti-intellettualismo a vantaggio di una percezione banalizzata e condivisa. E anche questo è segno dei tempi.

Enzo Campelli, sociologo