Nucleare. Riparare il mondo

«Quel che abbiamo visto sinora – morte delle foreste, Cernobyl – non è ancora niente: il peggio deve ancora venire». Così rispondeva Hans Jonas in un’intervista rilascia il 23 giugno del 1988 al settimanale tedesco «Stern». I quattro reattori di Fukushima, minacciosi e impenetrabili sullo sfondo di questi giorni caotici, sembrano confermare il pessimismo del filosofo. Da allora, in effetti, le cose non sono cambiate. La terra ha continuato a essere inghiottita dalla logica della produzione e del consumo, ridotta a serbatoio. Mentre la tecnica si è sviluppata nel segno dell’esagerazione e dell’incontrollabilità, il nucleare si è rivelato ormai una minaccia estrema. Lo stato di emergenza esiste già: gli uomini sono al contempo pazienti e medici di un male che hanno autonomamente prodotto.
Ma che cosa può la coscienza del pericolo di fronte alla politica spicciola, agli interessi dell’industria, alle necessità energetiche, alle esigenze del mercato? La coscienza «ecologica», per quanto sia ormai acuta, non si risolve in belle parole e buoni propositi?
Se si argomenta così, si sbaglia. E si è già persa la guerra contro il nucleare. Oggi non si dovrebbe più chiedere: che cosa possiamo ancora fare? Non si tratta di fare, inventare, creare. Piuttosto la questione è: che cosa possiamo non fare? A che cosa possiamo rinunciare? Più urgente è la rinuncia, il riconoscimento del limite. La natura non può più sopportare lo spirito inventivo dell’uomo. Da tempo lancia segnali inequivocabili. Saccheggiando spietatamente il pianeta, in vista del profitto economico e tecnico, abbiamo deluso le intenzioni della Creazione.
Sull’orlo dell’abisso è indispensabile parlare di «Creazione» prima che di «natura», per rispettarne il mistero e l’integrità, per frenare l’artificio umana, per assumere una responsabilità verso l’ecosistema, per prepararsi al compito che ci resta: il «tikkun olam», la riparazione del mondo. Pur dovendo ormai vivere all’ombra di una incombente calamità, non si dovrà cedere alla rassegnazione, ma accettare ebraicamente il «limite». Senza il dovere del limite c’è poca speranza.

Donatella Di Cesare, filosofa