memoria…

In copertina dell’ultimo numero di Pagine Ebraiche compare la foto di un giovane ebreo romano con il costume di un legionario romano che indossa i Tefillìn assistito da un altro ebreo vestito invece da charedì. L’immagine seppur fortemente suggestiva, nell’accoppiamento paradossale di due ebrei con storie e culture profondamente differenti che testimoniano assieme la sopravvivenza di una vitalità ebraica in quegli stessi luoghi dove un grande impero, di cui oggi restano solo reliquie e vestigia, ci trascinava schiavi in catene, mi ha suscitato inquietanti interrogativi. Con quegli stessi abiti i legionari romani ci hanno inflitto terribili persecuzioni sfociate nella distruzione del Bet Ha Miqdash e nel conseguente esilio che ancora viviamo. C’è molta differenza tra quella divisa e quella dei nostri carnefici nazisti? O è solo una differenza nella distanza del tempo e nella sedimentazione del dolore e nell’elaborazione del lutto? Sappiamo bene che alcuni giovani ebrei romani si trovano costretti a indossare quei costumi, talvolta con genuina inconsapevolezza per ciò che rappresentano, per guadagnarsi la pagnotta. Mi fa rabbrividire l’idea che un giorno i nostri nipoti possano indossare la divisa di chi ha ucciso barbaramente i nostri nonni e causato terribili sofferenze ai nostri genitori, anche se per puro folklore o perché spinti da necessità economiche. Come Comunità non dovremmo forse preoccuparci di prospettare ai nostri giovani altre soluzioni lavorative affinché non debbano più trovarsi costretti a vestire in quel modo?

Roberto Della Rocca, rabbino