La collina delle primavera

“A Gerusalemme si prega, a Haifa si lavora, a Tel Aviv ci si diverte”, recita un noto proverbio israeliano. Ma è soprattutto intorno alla singolare dicotomia tra Tel Aviv e Gerusalemme, che, fin dall’inizio, è cresciuto, con le sue straordinarie realizzazioni e tutte le sue difficoltà, contraddizioni, tragedie, il moderno Stato d’Israele. Il sionismo aveva bisogno, per il suo sogno di assoluta novità, di prodigiosa palingenesi dell’ebraismo, di uno spazio deserto, di una landa deserta, sulla quale fare crescere una civiltà completamente nuova, che lasciasse per sempre dietro di sé le sofferenze e le umiliazioni dei ghetti, dei pogrom, delle discriminazioni religiose e razziali. La bianca spiaggia innanzi al Mediterraneo, nelle prossimità del porto di Jaffa, da questo punto di vista, sembrò ideale, proprio per il suo vuoto, il suo niente, ai pionieri sognatori che, nel 1909, posero la prima pietra della città. La quale, com’è noto, con la sua rapidissima e impressionante crescita, avrebbe, in pochi anni, stupito il mondo. E, per il suo essere nata dal nulla, può ben dirsi che Tel Aviv, sul piano meramente fisico, avrebbe potuto sorgere anche in qualsiasi altro posto, magari in Argentina – ipotizzata da Herzl, nel suo Der Judenstaat, come possibile “rifugio per la notte” del popolo esiliato – o in Uganda – altra sede suggerita da qualcuno – o altrove. Ma, come immediatamente realizzato dai primi sionisti, la nuova anima moderna del popolo ebraico non avrebbe potuto pulsare lontano dall’‘altra’ anima, storica e spirituale, espressa dall’eterna, “fin troppo santa” Gerusalemme. I due cuori dovevano battere vicino, ma in due corpi completamente diversi: “Di Tel Aviv – scrive Amos Oz, in Una storia di amore e di tenebra, ricordando la sua infanzia gerosolimitana -, da noi, si parlava con un misto di invidia e vanteria, con ammirazione e un pizzico di omertà: come se Tel Aviv fosse una sorta di piano segreto e cruciale del popolo ebraico, di cui conveniva non parlare troppo, con le orecchie ben tese, perché di nemici e avversari era pieno il mondo… Una città ebraica bianca, lineare, che cresceva tra agrumeti e dune. Non soltanto un luogo per il quale compravi un biglietto dell’autobus…, no, un altro continente”.
Particolarmente prezioso, per la conoscenza del “cuore moderno” di Israele, uno stimolante libro scritto dall’architetto Gianluigi Freda (Lagonegro, 1976), recentemente apparso per i tipi della Franco Angeli, con il patrocinio dell’Ufficio Culturale dell’Ambasciata di Israele in Italia: La collina della primavera. L’architettura moderna di Tel Aviv. Attraverso l’analisi di Freda – in pagine di grande rigore scientifico, ma scorrevoli come un romanzo, e corredate di suggestive immagini fotografiche – il lettore apprende il vero e proprio miracolo di ingegno, tecnica e fantasia realizzato dai geniali creatori ebrei che, fuggiti dalla tempesta che si andava addensando sull’Europa, seppero trasfondere in Medio Oriente la creatività europea di Le Corbusier, Mendelsohn, Bruno Taut, del Bauhaus, dando vita a un gioiello architettonico unico al mondo, inserito dall’Unesco, nel 2003, nella lista dei siti patrimonio comune dell’Umanità. Un riconoscimento che – come ricorda, nella sua prefazione Luca Zevi, – è stato attribuito a una sola altra città sorta – anch’essa “ex nihilo” – nel Novecento, Brasilia. Ma se, nota ancora Zevi, l’esperienza di Brasilia è universalmente nota, quella di Tel Aviv appare ancora ingiustamente trascurata, soprattutto nel nostro Paese. Grazie quindi a Freda per averci regalato un così utile contributo alla conoscenza della “città bianca”, e di molti aspetti essenziali e affascinanti dell’anima ebraica, della civiltà di Israele, dell’arte universale.

Francesco Lucrezi, storico