Davar acher – Giustizia e arrendevolezza
Vi è un’antica illusione ebraica, secondo cui il modo per salvarci dall’odio e dalle persecuzioni sta nel “comportarsi bene” e nello stare alle regole dettate dagli altri. E’ stata la convinzione di molti ebrei assimilati durante la Shoah: non è possibile che colpiscano chi ha minuziosamente aderito a valori, stili di vita, comportamenti uguali agli altri. Ma è stata forse anche la convinzione dei chassidim russi che ai tempi di Napoleone rifiutarono di accettare la libertà che veniva loro offerta per mantenere il proprio ruolo, inferiore sì, ma garantito nella società dell’Ancién Régime. Molto più indietro, è l’illusione di Ester, che esita a rompere le regole del serraglio reale e Mordechai deve ammonire a non pensare di salvarsi da sola. Oggi è l’illusione di chi pensa che se Israele finalmente si comporterà bene, se accetterà una “legge internazionale” che sul piano giuridico non ha basi, ma politicamente favorisce i palestinesi, poi sarà lasciato stare in pace dentro la “linea verde”, per indifendibile che essa sia. Per le ragioni che verranno chiare nel seguito del discorso, si può chiamare quest’illusione “egocentrismo etico”.
Quest’illusione ha molti difetti. In primo luogo non è mai realistica, è per l’appunto un’illusione, come hanno mostrato tutte le persecuzioni in cui i “bravi” ebrei conformisti sono stati ammazzati non meno degli straccioni e dei rivoltosi; e di recente i ritiri israeliani dal Libano e da Gaza, che non hanno affatto smorzato, ma hanno al contrario aumentato l’aggressività contro Israele sul terreno e nel resto del mondo.
Il secondo difetto si può chiamare la “tentazione etica”. Chi è convinto che “comportandosi bene”, rispettando le leggi” ecc. gli ebrei possano evitare o almeno moderare le persecuzioni, crede facilmente anche che il primo segno di questo “buon comportamento” sia l’universalismo, il trascurare gli interessi anche vitali del proprio popolo per assumere per sé il punto di vista dell’assoluto (o del Divino, che a me sembra una forma di idolatria), decidendo in perfetta solitudine, senza sentirsi responsabili per gli altri quel che è giusto e quel che è sbagliato. Gli universalisti usciti dall’ebraismo hanno sempre lasciato una grande scia di guai, che si chiamassero Gesù di Nazareth o Karl Marx.
Gli ebrei antisrealiani e filopalestinesi, che non mancano certo oggi, non sono mossi di solito da un semplice “odio di sé”, ma dall’illusione di salvarsi da soli dai pericoli essendo “giusti”, aderendo cioè al punto di vista e alle categorie di giudizio dei propri nemici. Un’ulteriore conseguenza di questa sindrome è la pretesa di insegnare a tutti (i propri fratelli ma anche gli altri) la loro giustizia, di porsi come maestri di etica universale, al di là della politica e della religione. Al massimo, come ha fatto il giudice Goldstone l’altro ieri, il solipsista etico, se vede che l’attacco alla vita del proprio popolo non serve, si scusa facilmente: si è sbagliato, dice, non aveva tutte le informazioni, è stato ingannato – ma resta sempre un difensore della giustizia universale e pertanto superiore a tutti gli altri. A questo modo di fare si congiunge una definizione dell’ebraismo in termini di etica, non di popolo o di religione: l’ebraismo non sarebbe una cultura, un’eredità, una popolazione, la continuità storica di una fede e neppure un certo rapporto con il divino, ma “l’etica”. Che questo atteggiamento porti simpatia e comprensione, è tutto da dimostrare.
Il terzo difetto è quello capitale. Chi pensa di salvarsi comportandosi bene, naturalmente deve fare i conti con il fatto che non tutti nel popolo ebraico hanno la stessa idea del bene, gli stessi obiettivi e magari osano difendere i suoi diritti al di là dei limiti molto angusti di coloro che non appartengono al gruppo degli illuminati etici. Di conseguenza, il solipsista pensa e afferma che costoro non sono abbastanza etici, che non sono abbastanza buoni, che non si confanno alle leggi come dovrebbero, eccetera. Non sono persone che seguono un progetto politico diverso, o hanno altri ideali: sono peccatori, ingiusti, nemici dell’etica. Magari gli trova un nome spregiativo, o lo accetta dagli altri, per esempio li chiama “coloni”.
La divisione del popolo ebraico fra buoni e cattivi è il risultato pressoché inevitabile del solipsismo etico. Per i chassidim erano perduti gli ebrei che cercavano un po’ di libertà dalla Rivoluzione Francese; per i bravi borghesi assimilati che si consideravano tedeschi integrali “di religione mosaica”, i guastafeste impresentabili erano gli eredi di quelli stessi chassidim. I sionisti sono stati demonizzati dagli uni e dagli altri, e così i combattenti clandestini contro l’occupazione inglese e la violenza araba in Eretz Israel. Oggi per buona parte della sinistra ebraica, a essere colpevoli sono i “coloni”, che per loro certamente “rubano la terra ai palestinesi”, dunque sono ladri, ribelli e quant’altro. E invece siamo tutti coloni, siamo tutti da sempre legati a una terra in cui continuiamo a immigrare, come ho provato ad argomentare la settimana scorsa. E siamo tutti responsabili gli uni per gli altri (“kol Israel arevim ze-là-zè”)
Io non credo affatto che Sergio Dalla Pergola sia uguale a quegli illusi che vanno a Bilin a tirare pietre contro il “muro”, o cercano di espellere i proprietari ebrei dalla case di Sheik Jarrah, per il fatto che sotto il regime giordano erano state occupate da immigrati arabi – e poi si sentano giusti e moralmente superiori; non lo assimilo neppure a quegli scrittori e professori che hanno scoperto quanto sia comodo e redditizio fare la coscienza critica di Israele con i media internazionali, distribuendo condanne e invocando boicottaggi. So che il suo è un pensiero assai più lucido e razionale. E’ ovvio che ci sono delle considerazioni strategiche dei rapporti di forza che potranno costringere Israele a evacuare parte degli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria – anche se il risultato di simili operazioni in Cisgiordania, nel Libano meridionale e a Gaza non è stato proprio vantaggioso come ci si aspettava. (Prima o poi riusciremo a leggere un’analisi davvero critica degli accordi di Oslo da cui potremo ragionare sui pregi e sui difetti dell’intera strategia della cessione di territori in cambio di una pace che non vuol proprio arrivare.)
Ma il rifiuto del prof. Dalla Pergola di identificarsi con i “coloni”, nel suo pezzo di giovedì scorso, è motivato proprio secondo gli stereotipi di cui ho parlato: in sostanza i “coloni” (tutti?) sarebbero disobbedienti alle leggi, avrebbero comportamenti disordinati di fronte alla polizia. Siamo sicuri che il problema sia questo? Non mi sembra che Israele sia un posto molto politicamente disciplinato, non credo che la propensione al reato di un abitante di Ariel sia maggiore di un cittadino di Tel Aviv o Petah Tiqva. Mi piacerebbe leggere delle statistiche.
Il punto è ovviamente politico e non moralistico o criminologico. I “coloni” rappresentano la spinta al ritorno all'”eredità” di Eretz Yisrael che è stata la missione del sionismo: alcuni sono più religiosi della media degli israeliani; ma non tutti. Essi comunque indicano con la loro presenza il precario e appassionato rapporto che tutto il popolo ebraico ha con la sua terra. Fa molto comodo illudersi che la ragione dell’odio arabo sia la loro “occupazione”, quella del ’67. In realtà “l’occupazione” che gli arabi voglio eliminare è quella del ’48, la creazione di Israele, e magari anche più indietro, fino all’Yishuv, alla Prima Guerra Mondiale, alla Seconda Aliah.
L’abitante di Tel Aviv o Haifa che pensa di stare dalla parte del giusto e di scampare il conflitto dicendo di non essere un “colono” si illude, con tutte le conseguenze che ho elencato. Si può dire certamente che non si condivide il progetto degli insediamenti oltre la linea verde, che è meglio cedere quei territori. Ma senza disprezzare chi invece in quel progetto crede, senza trasformarlo in una questione di polizia. Avendo la giusta solidarietà per i “coloni” che sono oggi non le uniche ma le “privilegiate” vittime del terrorismo. E soprattutto assumendosi l’onere della prova di un altro progetto strategico quello del ritiro nelle linee del ’49 con qualche scambio che difende Dalla Pergola. Un progetto che ha la sua razionalità, ma dipende pesantemente dall’idea di una volontà araba di trovare un compromesso con Israele e di una capacità del mondo occidentale di garantirlo. Entrambe premesse che oggi appaiono molto dubbie. Anche perché, che lo vogliamo o no, che lo sappiamo o no, agli occhi degli uomini di Hamas come di quelli di Fatah, dei fratelli musulmani che in Egitto hanno vinto e degli uomini di Al Queida in Libia che stanno perdendo, come di centinaia di milioni di arabi buoni e cattivi, noi effettivamente siamo tutti coloni. Anzi Jahud, ebrei – e già solo per questo esseri inferiori che non possono essere giusti ma solo arrendevoli.
Ugo Volli