Il pregiudizio dei buonisti

In un suo lucido e, inevitabilmente, amaro intervento, pubblicato sul numero di aprile di Pagine Ebraiche, Sergio Della Pergola passa in rassegna alcuni fra i casi più evidenti ed eclatanti di pregiudizio antiebraico nella cultura italiana contemporanea, tanto più tristi e avvilenti in quanto riconducibili a personaggi di sicuro spicco e rilievo nel mondo intellettuale (quali Benedetto Croce, Vittorio Messori, Sergio Romano: ma l’elenco, com’è noto, potrebbe di molto allungarsi, includendo tanti altri nomi…). L’antiebraismo “colto e raffinato”, purtroppo, non è affatto una rarità, è un fenomeno diffuso e radicato, col quale occorre confrontarsi, e rappresenta la più evidente smentita dell’idea (ingenua e assolutoria, ma fuori dalla realtà) secondo cui l’intolleranza sarebbe esclusivamente frutto dell’ignoranza e della superstizione. È vero che l’intellettuale usa, almeno in pubblico, parole e argomenti molto diversi da quelli delle volgari battute da osteria, e che le due forme di linguaggio (quello ‘alto’ e quello ‘basso’) sembrano alquanto separate e indipendenti: ma si tratta di una separazione apparente, il collegamento tra i due tipi di espressione è ben evidente, anche se l’“antipatizzante” colto preferirebbe nasconderlo.
Se, però, l’antisemitismo intellettuale è stato ed è, in vario modo, oggetto di commento e analisi, meno attenzione si dedica generalmente allo studio del suo “gemello” “popolare”, “di strada”, che si tende a confinare nella semplice ricerca di tipo folkloristico o sociologico, atta a rivelare, più che altro, le conseguenze dell’incultura, dell’inciviltà, più che la ragion d’essere del pregiudizio. Ma se il pregiudizio, come abbiamo detto, è comune, in pari misura, tanto alla stupidità e all’ignoranza quanto all’intelligenza e all’istruzione, per comprenderlo occorre studiarlo in tutte le sue forme, con un’analisi completa, a 360 gradi.
Vivo interesse, da questo punto di vista, dimostra uno studio, non ancora pubblicato, di una valente studiosa di Pozzuoli, Giovanna Buonanno (ex insegnante e dirigente scolastico, oggi in pensione), dal titolo “Buonisti – Modi e funzioni dell’insulto razziale nelle relazioni tra i popoli”, in cui sono presentati la storia, i significati, i percorsi, le ragioni per cui sono stati coniati, nel tempo, migliaia di insulti razziali, con una disamina della loro funzione nell’articolarsi delle relazioni tra popoli diversi e all’interno degli stessi. Una ricerca in cui, purtroppo, la parola “ebreo”, usata come insulto, occupa un intero capitolo, venendo ampiamente analizzata, nei suoi vari significati dispregiativi, così come vengono presi in esame i tanti epiteti offensivi riservati agli ebrei (più di duecento quelli riportati: i più numerosi tra quelli rivolti a qualsiasi altra popolazione), che coprono tutti gli spazi delle definizioni che si costruiscono per indicare la diversità, o, meglio, l’alterità, quasi sempre in senso negativo.
“Gli ebrei, – spiega la Buonanno – infatti, hanno rappresentato, molto spesso, il polo negativo di ogni dicotomia indicante il “noi e gli altri”. L’ebreo è diventato “marrano” e “chueta” nella dicotomia religiosa “puri-impuri”; “braicu” o “scilinguato”, nella dicotomia “parlare corretto-scorretto”; “unarél”, o il più recente “diecipercento”, nella polarità “circonciso-incirconciso”; è stato chiamato “perro-cruel” o “chien-puant”, simbolo di empietà. La parola “ebreo” ha rappresentato la metafora dell’importunità, della maleducazione, della molestia e della crudeltà, così come ha indicato l’avido, l’avaro, il truffatore. Una “judiada”, in portoghese, ha significato una “carognata” e “porre al giudeo” “dare in pegno”. A volte l’ebreo è stato considerato riconoscibile a causa del suo presunto aspetto disgustoso: “snozzo”, “verruca”, “naso di tucano” o “a uncino”, “sciamannato”. E, soprattutto, è stato il capro espiatorio su cui addossare le responsabilità dei momenti difficili e le conseguenze delle proprie incapacità: “jøde” o “jude” (come dicono i danesi e i tedeschi) è stato il “nemico” per eccellenza, qualcuno da cui stare sempre alla larga.
Certo, potrà rappresentare motivo di consolazione constatare che il fenomeno analizzato sembra riguardare, prevalentemente, il passato. Ma la ricerca della Buonanno – che attendiamo di leggere, fra breve, nell’edizione stampata -, dà comunque testimonianza di una realtà imponente e complessa, la cui conoscenza appare utile e necessaria ai fini del suo completo e definitivo sradicamento. Ringraziamo perciò la studiosa per il suo lodevole impegno, che – al di là dell’evidente valore storico – ci pare anche una forma di solidarietà retroattiva verso tutti coloro che, negli anni e nei secoli passati, hanno tanto sofferto per l’umana grettezza e meschinità.

Francesco Lucrezi, storico