Progetto di vita
Difficile trovare una definizione che riassuma il progetto di vita ebraico, certo l’imperativo categorico di costruire una società secondo un orizzonte di giustizia, tenendo sempre vivo il ricordo delle esperienze fondative dell’abitare straniero in terra straniera e della schiavitù in Mitzraim. Esperienze, come ci ricorda la Torah, intrinsecamente legate, se non addirittura consequenziali (“In Egitto salì al potere un nuovo re, il quale non aveva conosciuto Giuseppe. Egli disse al suo popolo: «Ecco che il popolo dei figli di Israele è più numeroso e forte del nostro. Orsù, operiamo con intelligenza nei suoi confronti in modo che diventi più numeroso e accada che, qualora ci sia una guerra, anch’esso si aggiunga ai nostri nemici, combatta contro di noi e [il nostro popolo] se ne vada dal paese.» Shemòt, 1, 8-11). In una parola, l’ebraismo inaugura la prospettiva universalistica che riconosce diritti trasversali ai diversi contesti etnici e culturali. Che poi questa prospettiva debba essere circoscritta ad uno Stato o vada promossa in tutti gli angoli del globo (come, ad esempio, sosteneva lo stesso Yosef) è già oggetto di millenario dibattito. In ogni caso, è un imperativo etico che richiede un grande sforzo normativo e legislativo, in quanto prevede l’edificazione di un limite che non risponda a soli criteri gerarchici, restando in grado di scongiurare processi sociali degenerativi. Mi pare non solo giusto, ma anche doveroso condannare moralmente e perseguire giuridicamente chi questo limite non lo rispetta, alimentando la percezione di un Israele a vocazione “imperialista”, che certo non trova riflesso nel percorso identitario ebraico, definendo semmai altre tradizioni. Questo, a mio modo di vedere, lo schema di fondo; altra cosa è poi stabilire il punto in cui il limite va fissato e decidere chi sta “dentro” e chi “fuori”.
Davide Assael, ricercatore