Pacifismo e tragedia

In passato è già accaduto. Un povero ragazzo italiano, Angelo Frammartino, volontario tra i bambini di Ramallah, nel 2006 veniva accoltellato e ucciso in una strada di Gerusalemme “in quanto (scambiato per) ebreo”. Oggi un altro militante della causa palestinese, Vittorio Arrigoni, viene rapito e ucciso da fanatici islamisti che – indifferenti al suo lavoro e alle sue convinzioni – lo colpiscono perché “entrato nella nostra terra per diffondere la corruzione” e perché – in quanto italiano – proviene da “un paese di infedeli”. Le corrispondenze di Arrigoni erano fortemente schierate, e non lasciavano alcuna speranza in un futuro di pace: Israele era purtroppo rappresentato solo e unicamente come il nemico disumanizzato, il nemico sionista, non c’era spazio per mediazioni. Ma solamente chi non conosce il Medioriente può trovare sorprendente le modalità e le motivazioni che hanno portato a questo omicidio. E’ nota la tragica storiella che narra di uno scorpione che doveva attraversare un fiume, ma non sapendo nuotare, chiese aiuto a una rana che si trovava lì accanto dicendo: “Per favore, fammi salire sulla tua schiena e portami sull’altra sponda.” La rana gli rispose “Fossi matta! Così appena siamo in acqua mi pungi e mi uccidi!” “E per quale motivo dovrei farlo?” incalzò lo scorpione “Se ti pungessi, tu moriresti e io, non sapendo nuotare, annegherei!” La rana stette un attimo a pensare ma poi si convinse. A metà tragitto però lo scorpione punse la rana e mentre entrambi stavano per morire la rana chiese il perché del gesto. Rispose lo scorpione: “Questo è il Medioriente, bellezza…” Non c’è logica da quelle parti, e lo schierarsi anche in maniera faziosa, senza neppure provare a capire le ragioni dell’altro, non aiuta a salvarsi. Così Frammartino è morto “perché ebreo”, e Arrigoni è morto perché “italiano occidentale e corrotto”, in un brutale e tragico rovesciamento di ruoli che può solo suscitare pietà, e attivare una riflessione sui percorsi possibili per portare un po’ di pace in quella terra. Nel celebrare Pesach noi ebrei poniamo particolarmente l’accento sul significato simbolico del Maròr, l’erba amara, che ci trasmette fra l’altro un po’ di amarezza per la morte dei nostri nemici, annegati del Mar Rosso. E negli ultimi giorni di Pesach – come ci ricordano i Maestri – non si recita l’Hallèl completo proprio per ricordare l’amarezza per gli Egiziani deceduti, in base al versetto: “quando cadrà il tuo nemico non gioire e quando inciampa non sia lieto il tuo cuore” (Prov. 24, 17). Lo trovo un buon modo per celebrare dignitosamente queste nostre giornate di festa.

Gadi Luzzatto Voghera, storico