Un avvocato contro l’accusa di deicidio
Salvatore Jona nacque nel 1904 ad Ancona dove il padre Emilio, (allievo del Collegio rabbinico di Livorno frequentato sotto la guida di Elia Benamozegh, insieme ad Alfredo Sabato Toaff, padre del futuro rabbino di Roma, Elio) era rabbino. Dopo pochi anni, forse per dissapori con la Comunità, la famiglia Jona si trasferì a Milano, dove Emilio si occupò prima di assicurazioni e poi, trasferendosi a Torino e successivamente a Genova, dell’allora astro nascente dell’”informatica”: le macchine da scrivere. La formazione culturale del giovane Salvatore fu decisamente classica e, malgrado la profonda preparazione ebraica del padre, la cultura e l’osservanza religiosa ebraica rimasero sostanzialmente emarginate dalla sua vita. La frequenza della sinagoga rimase limitata al giorno di Kippur e in casa l’osservanza della tradizione, a parte il divieto di introdurre carni taref voluto dalla madre Eugenia Verona, rimase limitata alla celebrazione del Seder di Pesach fatta dal padre. Con questo (scarno) bagaglio culturale, Salvatore, divenuto precocemente un brillante avvocato a Genova, si ritrovò a confrontarsi con le leggi razziste nel 1938. Che costituirono per lui, come per la giovane consorte Emilia Pardo, un duplice dramma: da un lato occorreva ingegnarsi a evadere le nuove disposizioni oppressive del governo fascista, dall’altro si chiedeva perché mai fosse piovuta loro addosso una batosta del genere. Anche se non pensò mai di convertirsi, non riusciva a capacitarsi di essere fatto oggetto di tanto odio da parte di quella patria che egli amava e che, come avvocato serviva al meglio delle sue capacità, per il semplice fatto di frequentare (raramente) il Tempio invece della Chiesa. L’ impegno richiesto per superare la legislazione sempre più restrittiva dello Stato fascista, e portare a casa il pane per la famiglia, non gli lasciava comunque il tempo di approfondire la sua cultura ebraica.
L’8 settembre 1943, dopo l’armistizio chiesto dall’Italia agli Alleati, il Paese fu invaso dai tedeschi e le cose cambiarono radicalmente in peggio. Non si trattava più solo di trovare il pane, occorreva sfuggire alla cattura per sopravvivere. Cosa non facile in tempo di guerra quando, per chi avesse contravvenuto alla legge che imponeva di consegnare ogni ebreo (dichiarato nemico della patria), la pena era la morte. Per fortuna sua e della famiglia Jona, nel suo peregrinare sui monti, incontrò un vecchio compagno di studi, l’avvocato Emanuele Custo – molti anni dopo riconosciuto Giusto tra le nazioni – che, per motivazioni evangeliche, gli aprì coraggiosamente la porta di casa e lo nascose con la famiglia fino alla Liberazione. Curiosamente (per noi oggi, ma molto meno allora) la famiglia Custo, che con tanto coraggio aveva sfidato la morte per salvare una famiglia di ebrei perseguitati, non riusciva a capacitarsi che questi, dopo aver sperimentato in prima persona di cos’era capace l’”amore cristiano”, insistessero per restare nell’”errore”, che rinunciassero alla “salvezza dell’anima” che può essere propiziata “soltanto” dal battesimo. Li sconvolgeva e li deludeva che persone che da un lato manifestavano tanta gratitudine per il coraggioso aiuto ricevuto, insistessero per restare in una religione in cui si proclamava la dura giustizia dell’ “occhio per occhio”, invece di passare alla religione dell’amore, proclamato da Gesù con il detto “ama il prossimo tuo come te stesso” e soprattutto insistessero per restare nella sparuta pattuglia dei “deicidi” che, continuando a non riconoscere la divinità di Gesù, lo uccidevano quotidianamente.
Rientrato nella vita cittadina, Jona fu fatto oggetto di pressioni anche dall’ alto: perfino il cardinale arcivescovo di Genova, Giuseppe Siri cercò di spingerlo alla conversione. L’avvocato non aveva però alcuna intenzione di cedere alle molteplici pressioni per una sua conversione, ma non era tipo da rispondere a una domanda “perché?” con un semplice “perché no.” D’altra parte non aveva la preparazione per una risposta più circostanziata e articolata. Fu così che cominciò a raccogliere documentazione e a studiare quegli aspetti specifici dell’ebraismo che meglio avrebbero potuto servire a ribattere i luoghi comuni che venivano usati per accusare gli ebrei. Il primo risultato di questo lavoro fu un opuscolo, L’amore nel Vecchio Testamento, nel quale documentava che l’amore non era stato inventato da Gesù, ma si trovava ben prima in tutta la Torah e poi nel Talmud. In quegli anni scrisse diversi altri opuscoli incoraggiato dalla moglie e aiutato da rav Schaumann, che in quel periodo era rabbino a Genova, tutti con l’intento pratico di aiutare chi avesse poca dimestichezza con i sacri testi ebraici a difendersi e a difendere l’ebraismo dalle accuse più comuni quanto più ingiuriose. Restava ancora un punto su cui la risposta non era semplice: la presunta complicità ebraica nel deicidio di Gesù e la responsabilità che, secondo l’apostolo Matteo, avrebbe dovuto ricadere su tutto il popolo ebraico per tutta l’eternità. Si trattava di stretta dottrina cristiana, da cui derivavano secolari sentimenti antiebraici, che annualmente veniva rappresentata in innumerevoli Via crucis, in cui il popolo ebraico veniva rappresentato nel modo più spregevole. E si trattava di dottrina che era servita nei secoli come motivazione a terribili pogrom e a orribili auto da fé che terminavano immancabilmente con il rogo dei malcapitati ebrei. Tante altre crudeltà antiebraiche erano giustificate da questa aberrante dottrina del “deicidio”. Confutarla in modo accettabile e comprensibile da cristiani (argomenti della Halakhah o comunque rabbinici sarebbero stati inutili e al limite controproducenti) non era facile. Salvatore Jona si accinse dunque a questo lavoro come se avesse dovuto preparare una difesa in Cassazione.
Iniziò a escludere il “deicidio” perché la natura divina di Gesù non era riconosciuta e quindi senza il dolo di “voler uccidere Dio”, non poteva sussistere il reato di deicidio, passò poi a valutare le dimensioni del “popolo” tumultuante che era contenuto nella (piccola) piazza del Pretorio di Gerusalemme e infine considerò l’aberrazione giuridica di trasferire la responsabilità di qualsivoglia eventuale malefatta di questo gruppetto di (forse) facinorosi a tutto il popolo d’Israele, presente e futuro. Infine analizzò la responsabilità oggettiva di chi aveva effettivamente promulgato ed eseguito la sentenza di morte: i romani.
Svolse poi anche altre considerazioni per dimostrare l’infondatezza dell’accusa di responsabilità al popolo d’Israele per la morte di Gesù e concluse con una cronologia che raccoglieva un raccapricciante elenco di persecuzioni contro il popolo ebraico. Si tratta di un libretto di poco peso cartaceo (appena 66 pagine), conciso, logico e rigoroso come un ricorso in Cassazione.
A questo punto, anche se la difesa dell’”imputato Israele” era logica, corretta e rigorosa, cominciava la parte più difficile e aleatoria: bisognava portare queste tesi a conoscenza dei cristiani e soprattutto di quelli che contano, cioè le gerarchie ecclesiastiche. Non era un compito facile e soprattutto mancavano procedure e precedenti. Mentre per portare a conoscenza della Corte che deve giudicare gli argomenti a difesa di un imputato esistono procedure precise e ben codificate, nel caso della Chiesa e del papa la procedura era tutta da inventare. Fu così che Jona si rivolse a Giorgio La Pira, sindaco di Firenze fervente cristiano e grande sostenitore del dialogo interreligioso tra ebrei e cristiani (nell’immagine Salvatore Jona con il sindaco La Pira nel 1962 alla solenne conferenza organizzata a Palazzo vecchio per sensibilizzare l’opinione pubblica e il clero sull’antisemitismo). Già da alcuni anni c’erano tentativi e approcci per cercare di risolvere l’annoso (anzi millenario) problema delle accuse cristiane a Israele.
All’inizio del 1959 Giovanni XXIII annunciò inaspettatamente di voler promuovere un Concilio ecumenico per la Chiesa universale che avrebbe trattato anche il problema dei rapporti tra la Chiesa e il popolo ebraico. Jules Isaac aveva esperito tentativi ed aveva incontrato due papi, Pio XII e Giovanni XXIII, gettando le basi per una revisione dell’attitudine della Chiesa verso Israele. La Pira, grande amico di Isaac, accolse con grande interesse le tesi che Salvatore Jona stava elaborando nel suo libro. Il 7 aprile del 1962, per sensibilizzare l’opinione pubblica e soprattutto il clero italiano al problema dei rapporti ebraico-cristiani, La Pira organizzò una conferenza a Palazzo vecchio nel salone dei Dugento, con particolare solennità accentuata dalla presenza del Gonfalone della città e dei valletti in costume trecentesco: relatore era Jona sul tema Il dramma degli ebrei sotto il fascismo. Un interessante libro, Giorgio La Pira e la Vocazione di Israele, a cura di Luciano Martini (Giunti), rende conto con grande dettaglio degli scambi di lettere tra Jona, La Pira e Neppi Modona dell’Amicizia ebraico cristiana di Firenze nonché dell’evoluzione dei contatti per portare a conoscenza delle gerarchie conciliari le tesi che Jona stava sviluppando. Finalmente l’anno successivo, all’inizio del 1963, il libro era pronto. Luciano Martini nel suo libro riporta uno scambio di lettere (conservato nell’Archivio La Pira) intercorso tra l’editore Aldo Olschki, Jona, La Pira e l’allora presidente della Rai Ettore Bernabei, democristiano di ferro e molto ben introdotto nella Curia romana, sulla possibilità di presentare il volume a Papa Giovanni. Per fare ciò la procedura è complessa: occorre che, non appena composto, due copie dell’opera siano inviate alla Segreteria di stato del Vaticano che deve esaminare ogni pubblicazione offerta al Papa per ottenere il nihil obstat. In caso di consenso vaticano allora l’editore avrebbe inviato un congruo numero di copie a monsignor Dell’Acqua della stessa Segreteria, com’era consuetudine prima di un omaggio di libri al papa. Il contenuto dell’opera, scrive La Pira al suo amico Bernabei, coincide con le idee enunciate dal cardinale Agostino Bea, quindi non sembra ci debbano essere ostacoli per una presentazione al papa. Invece il 16 aprile Bernabei risponde con un laconico biglietto con il quale scrive a La Pira: “Caro Professore, Le invio un appunto che mi hanno consegnato a proposito della pubblicazione di cui abbiamo parlato”. L’appunto è costituito da due cartelle scritte a macchine, fitte, un documento anonimo, non protocollato, ma chiaramente originato dalla Segreteria di stato vaticana: formula un parere decisamente negativo alle tesi del libro di Jona e di conseguenza all’opportunità che La Pira, fervente e prestigioso cattolico, vi scriva una presentazione. Di presentarlo al papa non si parla neppure, ma la conclusione negativa è ovvia. Il testo, fortemente e dettagliatamente critico dell’ opera, dice tra l’altro che il libro “eccede i giusti limiti” quando afferma che le profezie non si avverarono ai tempi di Cristo e che quindi gli ebrei non furono colpevoli per non aver riconosciuto Gesù come Messia. E prosegue con una critica dettagliata di molte altre parti del libro. Missione fallita.
Ma occorre dare credito a La Pira di un trasporto a favore di Israele fuori dal comune nell’intellighenzia cattolica e di un coraggio intellettuale per quei tempi veramente eccezionale: in pieno contrasto con il parere della curia di Roma egli scrive una calorosa presentazione del libro avallandone le tesi. Nell’aprile 1963 il libro vide dunque la luce per i tipi dell’editore Olschki di Firenze con una presentazione di La Pira molto calda e piena di trasporto umano per le sofferenze di Israele. Ma il cammino delle tesi di Jona e della causa ebraico-cristiana era decisamente difficile. Nel settembre 1963 il Concilio doveva riprendere i suoi lavori e trattare l’argomento del deicidio. Il 7 maggio Jona scriveva a Neppi Modona: “Dieci copie sono allo studio del Vaticano… Prevedo che al Concilio vi saranno forti battaglie ed è per questo che mi sono impegnato a fondo… Vorrei dare al libretto ampia diffusione: (traduzione in inglese, portoghese, spagnolo e francese) prima della ripresa del Concilio”.
Ma lo stesso papa Roncalli, fautore sin dagli inizi, di una vigorosa dichiarazione a favore degli ebrei, aveva dovuto attenuare la forza del suo linguaggio a fronte dell’opposizione congiunta dei padri conciliari più tradizionalisti e dei vescovi arabi che vedevano la dichiarazione come un appoggio allo Stato d’Israele. A frenare ulteriormente il processo di riavvicinamento tra le due grandi religioni monoteiste due luttuosi eventi si succedevano in stretta sequenza: nel giugno 1963 moriva papa Giovanni e nel settembre dello stesso anno scompariva Jules Isaac. Tuttavia i semi che questi due grandi avevano posto nel terreno faticosamente trovarono il modo di germogliare, malgrado la presenza di tendenze opposte all’interno del Concilio, la dichiarazione Nostra Aetate vide la luce nell’ ottobre del 1965. In essa, con un linguaggio talvolta un po’ ambiguo e talaltra deplorevolmente attenuato, si condannava l’antisemitismo e, per la crocefissione di Gesù, si escludeva la responsabilità collettiva degli ebrei di allora e soprattutto dell’odierno popolo ebraico. Di conseguenza l’antisemitismo non poteva avere alcuna giustificazione dottrinale. Fu un passo avanti notevole, ma non risolutivo. Molti, nella gerarchia ecclesiastica, mantennero i vecchi convincimenti e l’antisemitismo non scomparve completamente dall’ambito del clero cattolico.
Poco meno di mezzo secolo è trascorso da allora. Altri episodi si succedettero nelle relazioni ebraico-cristiane. Fino a questi giorni quando in un libro su Gesù, firmato dal pontefice Ratzinger in persona, trovano spazio le stesse argomentazioni avanzate mezzo secolo fa da Salvatore Jona. Come figlio, non posso nascondere l’emozione per un simile evento, ma devo anche confessare lo scetticismo con il quale ascoltavo i resoconti di mio padre sui suoi incontri e i contatti con l’area cattolica: l’idea di smuovere la granitica base dell’antisemitismo ecclesiale mi sembrava ancor più velleitaria della lotta di don Chisciotte contro i mulini a vento. Non riuscivo proprio a entusiasmarmi. Mi sembravano sforzi e fatiche gettati al vento senza nessuna possibilità, ancorché minima e limitata, di successo: per fortuna sbagliavo. Oggi è addirittura il papa che presenta tesi identiche a quelle formulate da mio padre. Dopo cinquanta (anzi duemila) anni l’imputato Israele è assolto con formula piena.
L’avvocato Jona ha vinto un’altra causa.
Roberto Jona, Pagine Ebraiche, aprile 2011