Il dono di Israele

«Restare umani» sarebbero belle parole se non si traducessero nella de-umanizzazione di Israele. Sventure di un «pacifismo militante» che non si situa sui bordi, non varca i confini, non apre le frontiere della pace, ma si schiera contro nemici considerati satanici, fomenta odio e conflitto, per essere infine colpito tragicamente alle spalle.
Che cosa vuol dire «pacifismo militante»? Non è forse un ossimoro, una contradictio in adjecto, un sintagma illeggibile? Si possono usare mezzi violenti per giungere alla pace? Shalom, pace, non è l’opposto della guerra, bensì del male. Per imporsi non può avere come complice la guerra, né la violenza. Perché non sa di imposizione. Sta qui – scrive Abrabanel – la differenza tra la pax romana e la pace futura di Yerushalaim.
Ci accingiamo a lasciare l’Egitto, ad attraversare il mare prima e il deserto poi, per andare, varcando i millenni, verso il monte Sinai e la terra promessa – poderosi ricordi di speranze future serbati in un racconto di liberazione che Israele ha donato all’umanità.
Pesach kasher vesameach

Donatella Di Cesare, filosofa