Davar Acher – Le due feste

Capita abbastanza spesso come quest’anno che la Pasqua cristiana cada assai vicino o addirittura sia inclusa nel periodo della festa ebraica di Pesach. Ciò non fa meraviglia, dato che quella deriva da questa, sia stata l'”ultima cena” di Gesù un seder come i vangeli sinottici lasciano capire o una sua preparazione alla vigilia, come ha sostenuto di recente il papa seguendo Giovanni. Originariamente le date delle due feste coincidevano sempre, poi fra il terzo e quarto secolo la Chiesa stabilì un proprio metodo di calcolo diverso da quello ebraico e fissò la Pasqua sempre di domenica, anche per riaffermare la propria indipendenza religiosa rispetto all’ebraismo da cui divergeva. Non ho la pretesa di affrontare qui gli aspetti storici di questa vicinanza temporale, cioè da un lato il rapporto di Gesù con l’ebraismo e dall’altro i grandi lutti inflitti al popolo ebraico proprio nella ricorrenza pasquale a causa dell’accusa di deicidio – certamente infondata, come ha riconosciuto ancora lo stesso papa Benedetto XVI riprendendo una tesi conciliare, ma profondamente radicata nell’antigiudaismo dei vangeli e fonte di persecuzioni a non finire.
Voglio solo proporre una riflessione per così dire di antropologia religiosa sulla differenza fra le due feste. L’andamento passionale è simile, da una situazione di angoscia e dolore al trionfo finale. La Pasqua cristiana è però, nel suo svolgimento, soprattutto un grande funerale, la celebrazione di una vittima innocente che si risolve infine positivamente nella sua resurrezione. In Pesach l’accento è posto sulla liberazione di un popolo dalla schiavitù, non sul passato di oppressione. Nel testo dell’haggadà, il rituale della cena pasquale ebraica, si ricorda naturalmente l’aspetto doloroso di quella schiavitù, la persecuzione e l’afflizione che ne vennero, e anzi si dice che “in ogni generazione” c’è chi “si leva contro di noi per distruggerci”; ma il fuoco è sulla gratitudine e la gioia per la libertà riconquistata.
Dunque nel confronto fra le due feste si contrappone non solo un singolo di natura divina al collettivo di un popolo direttamente salvato dal Signore “senza mediatori” – tant’è vero che Mosè è clamorosamente quasi assente nella versione del racconto contenuta nell’haggadà. Ma si nota anche una scelta di tempi e di emozioni, di punti di vista assai diversi: l’accento ebraico è messo sulla festa della libertà e non sulla sofferenza dell’oppressione; i miracoli (le piaghe) sono moltiplicati dall’esegesi rabbinica fino a quasi normalizzarli. L’accento cristiano va invece sulla vittima e sulla sua resurrezione, che è il riconoscimento di uno stato divino più che un normale miracolo.
Mi sembra importante sottolineare soprattutto che Pesach non si centra affatto sulla condizione di vittima, ridotto a un elemento fra i tanti. E’ importante stabilirlo perché esiste una tendenza nel Cristianesimo ma anche in certi ambienti ebraici, a valorizzare l’aspetto di “vittime innocenti” del popolo ebraico, soprattutto dopo la Shoah. L’affermazione di Papa Wojtyła per cui Auschwitz sarebbe stata “un nuovo Golgota” si incontra con quella di coloro che di fronte all’autodifesa ebraica attuale in Israele rimpiangono “l’innocente sopportazione” degli ebrei chassidici distrutti dalla Shoah. Al di là del folklore in stile “violinista sul tetto” che ha largo corso nei mass media, vi sono degli eminenti pensatori, come Joshua Leibowitz a sostenere l’aspetto positivo di essere “portati al macello come pecore”. E vi è una teoria filosofica dell’ebraismo come primato dell’altro, in cui ciascuno sarebbe chiamato quasi ad annullarsi in nome di ciò.
E però “porgere l’altra guancia” non è un tema ebraico (mentre amare il prossimo come se stesso sì), dunque l’altruismo è sempre tenuto lontano dall’autonegazione e ancorato alla propria conservazione. E non solo Pesach, ma nessuna festa ebraica è la celebrazione dello statuto di vittime: non certo Channukkà o Purim, che ricordano vittorie sul genocidio, sempre mettendo in rilievo il miracolo della sopravvivenza; ma neppure le ricorrenze più tristi come Kippur o Tishà beAv (in cui si ricorda la distruzione di Gerusalemme) hanno al centro una condizione vittimaria, semmai l’analisi lucida e razionale degli errori e dei peccati commessi che giustificano la punizione.
In realtà l’ebraismo non si concentra su vittime e martiri: se al centro del racconto cristiano Gesù muore sulla croce, nel racconto ebraico è importante che Isacco non perisca ma sia salvato prima di essere immolato; la storia sacra ebraica si concentra sul superamento di prove e sull’arrivo alla terra promessa, poi sull’obbligo di mantenere la purezza religiosa; se i profeti minacciano spesso dolori e parlano di Israele come “servo sofferente”, lo fanno in vista di una restaurazione messianica del regno di Israele che dovrà avvenire nel tempo e mondo e non in una condizione trascendente.
Nella storia ebraica la prima forte menzione di martiri – fedeli che muoiono per non rinnegare la fede – compare in un testo che i Saggi non vollero includere nel canone, il secondo libro dei Maccabei, peraltro tardo, risalente al primo o al secondo secolo prima della nostra era. Nel seguito della nostra storia i martiri (o piuttosto caduti per la “santificazione del Nome”) non mancano, naturalmente; ma noi non li trattiamo da santi per questo, non abbiamo agiografie e martirologi, e preferiamo ricordarli per le loro altre virtù, com’è il caso di Rabbi Akivà, ucciso atrocemente dai romani, ma che è importante nel mondo ebraico soprattutto per il suo sapere e la sua autorità rabbinica.
Insomma, non vi è affatto nell’ebraismo una vocazione vittimaria (e quindi non vi è quella “religione olocaustica” che ci rinfacciano i negazionisti). L’ebraismo è fortemente legato all’idea di realizzarsi nella vita e indica come modello non la sofferenza per la fede, non l’ascetismo o il martirio, ma la “gioia” della vita buona e piena di senso vissuta secondo le sue regole. Naturalmente questo non vuol dire che non ci siano stati ebrei asceti o martiri, né cristiani interessati ad affermare i loro ideali nel mondo, anzi. Ma che, nonostante la parentela d’origine, l’orientamento antropologico fondamentale delle due religioni, in questa festa come in altre è assai diverso. Ricordarselo è la base indispensabile di ogni dialogo ben fondato.

Ugo Volli