Davar Acher – L’esempio di Giovanni Paolo II
Voglio dedicare questa riflessione alla proclamazione che avviene oggi di papa Giovanni Paolo II a beato della Chiesa cattolica. Io personalmente, credo insieme alla maggioranza del mondo ebraico, ne sono lieto. Non perché gli ebrei possano aderire religiosamente alla decisione della Chiesa: noi non pensiamo che gli uomini possano essere oggetto di venerazione e di preghiera e in genere non conosciamo la funzione di mediazione attribuita dal Cristianesimo a beati e santi; non abbiamo neppure l’idea che il destino delle anime possa essere stabilito o conosciuto da qualche istituzione terrestre. Non possiamo e non vogliamo quindi entrare nel merito della dimensione propriamente religiosa di questa proclamazione. Ma consideriamo che la beatificazione indichi anche sul piano civile una persona come esempio da imitare per il suo comportamento, ne lodi le scelte, la proponga anche ai non cattolici come modello di umanità; ed è su questo piano che siamo lieti del fatto che essa investa il papa polacco.
Karol Wojtyla fu una persona di fede e di evidente coraggio e moralità. Nei confronti del mondo ebraico non solo si mostrò sempre amichevole, ma fece alcune scelte difficile e coraggiose, da quella di indicare, da semplice sacerdote, alle famiglie che avevano ospitato bambini ebrei rimasti orfani durante la Shoà di restituirli all’ebraismo e di non convertirli; alla visita alla Sinagoga di Roma, la prima da duemila anni; dal viaggio a Gerusalemme con la scelta di fermarsi al Kotel e di aderire al costume popolare ebraico di lasciarvi un bigliettino di preghiera; a quella fondamentale di chiedere pubblicamente scusa per le ingiustizie commesse dalla Chiesa nei secoli contro il popolo ebraico. Sono gesti che ci hanno colpito profondamente e che restano nella storia. Indicano un profondo senso di giustizia, ma soprattutto la via di una collaborazione fra fedi di versi, non di un conflitto o di una sorta di concorrenza. Speriamo che questo insegnamento abbia aperto un nuovo cammino concreto di convivenza e di amicizia e crediamo che il papa attuale, che del nuovo beato fu collaboratore insigne, voglia proseguirlo.
Vale la pena di esprimere questa soddisfazione civile, per così dire di buon vicinato, ma anche di fiducia nell’umanità, senza entrare nel merito della scelta religiosa, anche per chiarire ancora una volta la nostra difficoltà su un percorso analogo che la Chiesa ha deciso rispetto a Pio XII. In un caso o nell’altro il senso proprio del titolo di beato o di santo non ci riguardano e quel che discutiamo è la dimensione storica, sociale, pubblica delle figure che la Chiesa sceglie di esaltare e in particolare, per quel che ci riguarda, il loro rapporto con l’ebraismo – che per la Chiesa è sempre una misura di identità, essendo essa nata distaccandosi dalla nostra religione.
Naturalmente l’azione del leader spirituale di una grande religione che è anche capo di stato presenta tanti aspetti e su di essi i giudizi possono variare, specialmente se si attribuisce al papa tutta la complessa azione della Chiesa. Sicché, da un punto di vista laico, i giudizi storici sulle figure dei papi non possono che essere sempre in chiaroscuro, senza condanne assolute o esaltazioni senza ombre. Ma per il mondo ebraico è chiaro che la figura di papa Wojtyla rappresenta un modello positivo di Chiesa, l’esempio di come si possa essere autenticamente e totalmente cattolici e insieme amici del nostro popolo, davvero aperti al dialogo – oltre che naturalmente, nel caso di Giovanni Paolo II, aver offerto al mondo una grande personalità storica che ha dato un contributo essenziale alla liberazione dell’Europa dal comunismo e all’avanzamento della sensibilità e dell’immagine della Chiesa rispetto al mondo contemporaneo. Per questo oggi molti ebrei (e io fra essi) si rallegrano della scelta della Chiesa di onorare e celebrare Giovanni Paolo II.
Ugo Volli