E se anche noi fossimo impauriti?
Gli ebrei, come ogni gruppo sociale, sono permeati dai sentimenti collettivi. E basta leggere i giornali per comprendere quanti sono i messaggi negativi che ci colpiscono. Gli immigrati che ci invadono, i crimini in strada, il grande fratello che spia tutti noi, il lavoro che non si trova, la crisi. Queste notizie creano un senso di insicurezza verso il mondo globalizzato, le istituzioni, le nostre prospettive di vita. Intendiamoci, personalmente non mi ritengo, purtroppo, un ottimista. Dunque sono portato a privilegiare una lettura negativa del mondo in cui viviamo. Ma il punto è un altro. Siamo sicuri che l’intero processo sia neutrale e non si riveli vantaggioso per qualcuno? Io credo che l’investimento sulla paura dei cittadini possa essere molto redditizio in termini elettorali, e che per questa ragione, in tutto l’Occidente, questa pulsione sia usata per controllare sentimenti, desideri, aspirazioni, e quindi anche voti delle persone.
Probabilmente accade qualcosa di molto simile anche all’interno delle comunità ebraiche. Anziché privilegiare i tanti aspetti positivi della vita ebraica nel mondo – tanto per citarne uno, la rinascita dell’ebraismo nell’Europa dell’Est – si sottolineano continuamente, in modo quasi esclusivo, i pericoli derivanti dall’odio antisemita, dalle minacce verso Israele, dal decremento demografico. Non ho soluzioni roboanti. Avanzo solo una proposta modesta a chi si occupa di stampa ebraica: perché, accanto ai vari osservatori sull’antisemitismo e sull’antisionismo di giornali e televisioni, non proviamo a immaginare un impegno analogo per studiare le parole che usiamo sulla pubblicistica ebraica (occorrenze, frequenze, distribuzione)? Forse ci verrebbero buone idee, e comunque scopriremmo qualche aspetto interessante di noi stessi.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas