Shoah e poesia

Lo Yom ha-Shoah è caduto quest’anno, impossibile negarlo, in un momento particolarmente difficile e inquieto per il popolo ebraico (ma quante volte si è potuto dire diversamente?). La voce dei nemici di Israele si fa sempre più minacciosa, né i sommovimenti in atto nel mondo arabo sembrano, almeno finora, avere segnato una svolta nel segno di una volontà di dialogo e riconciliazione (a volte, come in Egitto, sembra anzi il contrario); l’accordo tra Hamas e Fatah parrebbe avere affossato le esili speranze di potere disporre, prima o poi, di un partner negoziale affidabile, quantunque duro ed esigente; i valori della memoria e dell’antifascismo vacillano, in tutta Europa, sotto i colpi di nostalgici, reazionari, negazionisti e oscurantisti di ogni risma, che sembrano spuntare dovunque come funghi, dalla Francia (ove il Front National di Marine Le Pen cresce sempre più nei sondaggi) all’Ungheria (che si è appena dotata di una nuova costituzione di stampo clericale e ultranazionalista), dalla Finlandia alla Russia, all’Italia (almeno due candidati alle prossime elezioni amministrative di Napoli hanno fatto aperta apologia del nazismo, nella quasi indifferenza generale) ecc… Ed è abbastanza triste dovere segnare, come unico motivo di consolazione, la morte di Bin Laden.
Se dalla realtà e dalla politica non vengono buone notizie, si può forse cercare, però, qualche segnale di speranza nel mondo dell’arte e della fantasia. E piace citare, a questo proposito, lo straordinario, delicatissimo contributo all’elaborazione della memoria che viene dalla voce di una giovane coppia di scrittori ebrei americani, marito e moglie, già meritatamente ascesi nell’empireo dei grandi della letteratura contemporanea: Jonathan Safran Foer e Nicole Krauss. Dopo il grido muto della generazione dei sopravvissuti, e la dolorosa ricerca di senso dei loro figli, la “New York’s golden literary couple” rappresenta una terza generazione di testimoni, che, sulle tracce del terribile destino dei loro nonni, sembra avere creato nuove forme di linguaggio e di emozione, in grado di coniugare la contemplazione della voragine del XX secolo con la costruzione di un futuro non chiuso alla speranza. La memoria della Shoah, nelle pagine dei due scrittori (pensiamo ai romanzi “Ogni cosa è illuminata”, “La storia dell’amore”, “La grande casa”), non è più una prigione, una condanna, ma un naturale specchio dell’anima, una inesauribile sorgente di coscienza, un “secondo cuore” palpitante. E viene da chiedersi cosa avrebbe detto, di fronte alle loro pagine, Teodoro Adorno, a cui si deve la famosa asserzione secondo cui, dopo Auschwitz, non sarebbe mai più stato possibile creare poesia. Quella frase, è stato detto, era già poesia, così come è poesia l’idea della Krauss, ne “La storia dell’amore”, secondo cui ogni parola, per quanto perduta, possa rinascere, e tornare a risuonare. Viene da pensare, al riguardo, alla riflessione di Walter Benjamin, che, alla domanda se la fotografia fosse o no una forma di arte, rispose che occorreva invece chiedersi in che misura la nascita della fotografia avesse cambiato la stessa nozione di arte. Allo stesso modo, si può dire che l’idea di memoria è cambiata dopo la Shoah e, con essa, la poesia sulla memoria. Se il viaggio di Ulisse, col felice ritorno a Itaca, è precluso, così come il viaggio di Enea, alla gloriosa conquista di un nuovo mondo, nuovi viaggiatori si sono, comunque, messi in cammino, con la forza di una parola umile, sommessa, che chiede di essere ascoltata.

Francesco Lucrezi, storico