Davar Acher – Yom Ha’Atzmaut

Nei giorni scorsi sono rimasto affascinato – un po’ intrappolato un po’ contagiato – dal grande raduno degli alpini a Torino: bandiere tricolori appese alle finestre di tutte le case, decine di migliaia di persone in festa, cori, bande, strane macchine e scenografie, un popolo di tutte le età e di tutti i gradi (alcolici) che si muoveva in gruppi per la città: un fenomeno urbano così massiccio da creare qualche disagio, ma anche molta simpatia e partecipazione. Sotto a tutto questo folklore contagioso, era evidente un modo di stare assieme allegro e contento di sé, un amore per la propria terra, per le proprie montagne, per le proprie istituzioni (militari e non), per la propria stessa esperienza, un modo positivo di ritrovarsi uguali, una gioia di essere quelli che si, è appena velata da una malinconia per coloro che sono morti per questo fine: un sentimento che si riassume nel nome patriottismo e che non ha affatto la tonalità emotiva del cupo nazionalismo oppressivo e intollerante che si è visto purtroppo spesso nel secolo scorso, per esempio con il fascismo e il nazismo.
Vi è un’idea diffusa nelle élites intellettuali e politiche europee per cui tutto il male uscito dal nostro continente sarebbe dovuto al nazionalismo e perciò l’idea stessa di stato nazione sarebbe da superare e rifondere nella neutralità di un’interculturalità senza patria. La festa degli alpini mostra un altro modo di essere patriottici: positivo, non esclusivo, sensibile al bene comune, allegro, generoso.
E’ un’esperienza utile per comprendere le ricorrenze ebraiche di questi giorni, Yom HaZikaron e Yom Ha’Atzmaut, il ricordo di coloro che sono morti al servizio di Israele o che sono stati ucciso dal terrorismo e subito dopo la festa dell’indipendenza. Anche il sionismo è un patriottismo, con le stesse caratteristiche positive di quello italiano. Il processo di formazione del sionismo è abbastanza simile nel tempo, nell’ideologia e nei modi a quello del Risorgimento italiano: simile l’idea di riunire un popolo disperso, di sottrarlo all’oppressione, di far “ri-sorgere” una nazione; simili le difficoltà della lotta contro nemici superiori, l’urgenza di cogliere occasioni storiche irripetibili, le difficoltà economiche e strutturali per l’edificazione dello stato. Naturalmente vi sono anche le differenze, così evidenti da non aver bisogno di essere citate: dalla dimensione religiosa dell’ebraismo alla Shoà, dalla dispersione territoriale al diverso quadro politico e sociale dei due fenomeni.
Resta il fatto che ancor più del patriottismo europeo il sionismo è stato diffamato e demonizzato dalle élites politiche e intellettuali d’Europa e d’America negli ultimi decenni. Come se il nazionalismo fosse lecito e degno di approvazione solo se veniva dai nemici dell’Europa, proprio perché nemici. Il modello di questa posizione è la celebre affermazione di Sartre nella prefazione ai “Dannati della terra” di Franz Fanon per cui un algerino che uccideva un francese avrebbe liberato due persone dall’oppressione, se stesso e la sua vittima.
In realtà il nazionalismo terzomondista nella maggior parte dei casi è artificiale e puramente negativo, perché non è veramente fondato il richiamo a una base nazionale: le appartenenze sono tribali o assai largamente religiose. Questo si vede benissimo nelle rivolte arabe di questi mesi, che puntano naturalmente a una dissoluzione dei vecchi stati, in entità più piccole e tribali o nella larga unità della umma islamica. Anche nella popolazione palestinese, così pesantemente sottoposta a propaganda nazionalista, una recente inchiesta mostra che il 57% della popolazione, alla richiesta di declinare la propria identità si classifica innanzitutto come “musulmano”, il 21% come “palestinese”, il 19% come “essere umano” e il 5% come “arabo”. In corrispondenza il 40% della popolazione palestinese ritiene che il miglior sistema politico da costruire fosse il califfato universale, il 24% preferisce il sistema dominante nei paesi arabi cioè gli stati autoritari di vario tipo, e solo il 12% il sistema democratico occidentale.
Torniamo al patriottismo ebraico. L’edificazione dello stato di Israele ha comportato prezzi tremendi: non solo e non tanto le vittime dell’hitlerismo morte anche per non aver avuto dove rifugiarsi, che abbiamo ricordato con malinconia e con angoscia la settimana scorsa con Yom HaShoà. Ma soprattutto coloro che sono caduti nelle guerre con cui Israele ha dovuto difendersi dalle aggressioni continue dei suoi vicini e le vittime del terrorismo. Si è scelto di ricordarli in una giornata separata ma consecutiva alla festa dell’indipendenza, perché il sionismo è un patriottismo positivo, non si alimenta di lutti e risentimenti ma di amore per la propria terra, il proprio modo di vivere, la propria identità, è fierezza delle proprie realizzazioni e gioia del bene comune.
Un libro recente di Luigi Compagna ha messo in evidenza le analogie fra il pensiero di Herzl e quello di Mazzini, anche nella concezione di una libertà dei popoli – oggetto del patriottismo – necessaria alla realizzazione della libertà individuale. Come la grande adunata degli alpini, anche Jom HaAtzmaut è e vuol essere festa di popolo, gioia, senso di libertà. Chi, fra gli intellettuali, i politici, i giornalisti, non apprezza questo sentimento si condanna a non comprendere le forze profonde che fanno compiere ai popoli sacrifici immensi per la propria libertà, la fierezza degli israeliani per le magnifiche realizzazioni degli scorsi decenni e quella con cui gli ebrei di tutto il mondo guardano la bandiera col Maghen David e dicono “Am Israel chai”, il popolo di Israele vive. Buona festa a tutti.

Ugo Volli