Come sarà il nuovo romanzo ebraico italiano

Il prossimo grande romanzo ebraico italiano? Non giungerà dal mondo che abbiamo imparato a conoscere dalle pagine di Giorgio Bassani, di Natalia Ginzburg o di Alberto Vigevani. Ma si alimenterà della nuova linfa portata dalle immigrazioni. E dunque sgorgherà dalla penna di un ebreo libanese o persiano o tripolino, da quel gusto della vita che si alimenta negli incroci e scontri tra mondi e culture diverse, da quel tratto cosmopolita che contrassegna i nostri tempi.
Il pronostico è prezioso, perché viene da Marco Vigevani, figlio di quell’Alberto che nei suoi romanzi raccontò l’ebraismo italiano e agente letterario di collaudata esperienza. Uno che prima di passare a questo mestiere, dieci anni fa, si è impadronito dei delicati meccanismi editoriali, prima da Longanesi e poi alla Mondadori occupandosi di narrativa e saggistica imparando, in qualità di editor, a riconoscere le impalpabili qualità del libro che funziona.
Uno che ha seguito Vedi alla voce amore di David Grossman, il libro che in Italia diede il via al boom della letteratura israeliana, il Libro nero di Grossman e Erenburg o il Libro nero del comunismo e oggi rappresenta autori di gran successo quali Giorgio Bocca, Mario Pirani o Paolo Rumiz.
La sua agenzia letteraria si trova nel cuore chic di Milano, a due passi da Sant’Ambrogio. È un angolo di pace, affacciato sul verde di un bel cortile, stipato di libri ben allineati sugli scaffali lucidi. Ma a fugare ogni tentazione nostalgica provvede una pioggia battente di telefonate, messaggi e mail che parlano di libri, diritti, nuovi autori, fiere internazionali, aerei da prendere e appuntamenti urgenti.
Marco Vigevani, sembra un lavoro tanto divertente …
È un lavoro molto vario, che però rimane ancora abbastanza artigianale. E in questo sta la sua bellezza. I libri consentono di confrontarsi con mondi diversi, la storia, la narrativa, l’arte o la scienza e, a differenza di quanto accade con la tivù o con il cinema, sono sempre dei piccoli prototipi che vanno messi a punto per poi trovare un’ampia diffusione. Il brutto è che si legge troppo. Mi piacerebbe trovare il tempo di leggere per me stesso anziché dedicarmi solo ai libri di lavoro, ma è un’impresa quasi impossibile. Di giorno c’è da mandare avanti il lavoro di routine, per la lettura non rimangono dunque che le sere e i week end.
Com’è maturata la scelta di lavorare con i libri?
È iniziato tutto per caso. Dopo la laurea in filosofia non sapevo bene che strada scegliere. Sapevo però che non volevo lavorare insieme a mio padre, libraio antiquario e fondatore della Polifilo, casa editrice che propone grandi classici e libri antichi. Così ho trovato un posto nella segreteria editoriale di Mario Spagnol alla Longanesi e vi sono rimasto fino al 2000 quando sono passato alla Mondadori dove ho lavorato a lungo come editor, occupandomi soprattutto della scelta degli autori stranieri.
Dunque è una specie di vocazione familiare.
Da un certo punto di vista sì. Da ragazzino mio padre mi dava da leggere e verificare i suoi testi, quindi mi sono preparato fin da giovanissimo al lavoro di editor. Ma mi sono sempre occupato di libri commerciali e per questo mio padre mi ha sempre preso in giro.
Come avviene la scelta dei libri da proporre alle case editrici?
Gli autori ormai si sono resi conto che rivolgersi per conto proprio agli editori è molto difficile. Le richieste dunque sono molte, ogni giorno ne riceviamo sei o sette. L’esperienza ci consente di fare subito una prima scrematura: eliminiamo quelli che chiamiamo i manoscrittori, i fanatici della scrittura che ci subissano di testi mai pubblicati. Alcune proposte le dirottiamo a lettori professionisti per avere un loro parere mentre altre che ci sembrano interessanti possiamo decidere di rappresentarle. Se si tratta invece di autori già conosciuti cerchiamo di valutare le opportunità insieme a loro.
C’è un libro che ha seguito di cui è particolarmente fiero?
Senz’altro il Libro nero di Vasilij Grossman e Il’ja Grigor’evicˇ Erenburg, edito da Mondadori nel ‘99, che su incarico del Comitato antifascista ebraico documenta, attraverso una serie di testimonianze, i crimini di guerra perpetrati dai nazisti e dai loro alleati nel territorio dell’Unione sovietica. La sua pubblicazione venne bloccata dalle autorità sovietiche con l’ondata antisemita e il libro vide la luce nel ‘94, con cinquant’anni di ritardo, in un’edizione a cura di Arno Lustiger.
Un successo?
Rivendico sempre di aver acquistato i diritti del Libro nero del comunismo, anch’esso pubblicato da Mondadori. Un libro francese, una raccolta di saggi sugli Stati comunisti, che secondo me era molto importante. Purtroppo ebbe però in Italia una lettura molto strumentale tanto da venire usato per sdoganare il fascismo.
Un incidente di percorso?
Il caso di Binjamin Wilkomirski che in Fragments: Memories of a Wartime Childhood aveva narrato la sua infanzia di sopravvissuto alla Shoah. Il libro aveva un valore letterario e perciò fu scelto per la pubblicazione italiana con il titolo di Frammenti. Fu un successo, finché un giornalista svizzero scoprì che Wilkomirski si era inventato tutto.
Le è mai capitato di rifiutare un libro che poi ha avuto fortuna?
All’inizio della mia carriera di agente mi è capitato con Antonia Arslan, autrice de La masserie delle allodole, un libro che è diventato un best seller al punto che ne è stato tratto anche un film.
Parliamo di letteratura israeliana. Perché è così amata in Italia?
È la terza grande ondata della letteratura ebraica, dopo quella yiddish e quella americana. Forse in Italia è apprezzata, oltre che per le sue notevoli qualità, perché amiamo gli autori da cui possiamo farci impartire lezioni di morale. Non a caso gli scrittori più giovani e irriverenti, penso ad esempio a Edgar Keret, da noi non hanno particolare successo.
E la letteratura ebraica italiana?
Abbiamo storici e saggisti di qualità ma il mondo letterario ebraico negli ultimi cinquant’anni ha subito una cesura. Il mondo di Bassani, della Ginzburg e di mio padre è scomparso. Quella storia è finita e il romanzesco si è spostato. Per scrivere un romanzo davvero interessante ci vorrebbe un ebreo persiano, tripolino, libanese che ha sperimentato l’emigrazione, il confronto con una nuova cultura e vive in quella dimensione cosmopolita che ormai segna il contemporaneo.

Daniela Gross, Pagine Ebraiche, maggio 2011