Imprescrittibile

Il processo a John Demjanjuk, il boia di Sobibor, sarà forse uno degli ultimi per i crimini dell’epoca nazista. La condanna ripropone la questione della necessità che quei reati siano sottratti a ogni prescrizione, dichiarati imprescrittibili.
Rispetto alla colpevolezza germanica si può perdonare l’offesa irreparabile fatta all’uomo, che è offesa fatta a Dio? Si può concedere generosamente un perdono «urbi et orbi», elargire una assoluzione che spesso sconfina in un tacito autoassolversi? Soprattutto: si può perdonare chi il perdono non l’ha neppure chiesto? E poi: in nome di chi si potrebbe perdonare? Solo alla vittima spetta il diritto di perdonare.
La grandezza della Torah sta nel provare orrore per il perdono concesso per procura e nel non poter negare giustizia a chi la reclama. L’offeso deve essere placato, risarcito, consolato. Israele rifiuta una concezione hegeliana della storia che presume di installare la pace di un ordine universale ignorando e calpestando le lacrime private.
Per essenza il perdono è impossibile. Il perdono, se c’è, non perdona che l’imperdonabile. Si può essere d’accordo con Jankélévitch secondo cui «il perdono è morto nei campi della morte». Si può pensare, con Lévinas e con Derrida, che il perdono ha a che fare con il «dono» e l’esperienza paradossale della donazione che eccede la logica penale e che, nella sua eccezionalità, è estranea allo spazio giuridico.
Ma un punto fermo deve essere l’imprescrittibilità dei crimini nazisti. Imprescrittibile non è imperdonabile. La storia continuerà, ma non con l’equivoco di un perdono confuso con il lavoro del lutto, l’assimilazione del male, l’oblio. La ferita della Shoah resta fuori dalla prescrizione giuridica, inferta nel tempo e inscritta nella storia a venire.

Donatella Di Cesare, filosofa