Perdonare l’imperdonabile? Lévinas e la Shoah
Il convegno che si è svolto il 15 maggio a Genova, organizzato dal Centro «Primo Levi», ha toccato un tema finora aggirato dagli studi sul grande filosofo. Nel 1981 Elie Wiesel ha rimproverato a Lévinas di non poter parlare della Shoah se non in modo indiretto. Tutta la famiglia fu assassinata a Kaunas, in Lituania; Lévinas riuscì invece a salvarsi perché, trasferitosi in Francia e in Germania per studiare filosofia, nel 1931 aveva ottenuto la cittadinanza francese. Partì per la guerra il 27 agosto del 1939 come interprete militare dell’esercito francese; fu fatto prigioniero nel 1940 e, internato in Germania nello stalag XIB, si salvò grazie alla Convenzione di Ginevra.
Sugli anni della prigionia, trascorsi in una baracca con altri detenuti ebrei, ha parlato Danielle Cohen-Lévinas. Sulla necessità del perdono ha messo l’accento Massimo Giuliani, mentre Francesco Camera ha interpretato la Shoah come una cesura nella riflessione di Lévinas, evento che incrina la sua biografia dominata dal presentimento e dal ricordo dell’orrore nazista.
Sul tema della giustizia, indisgiungibile, nell’ebraismo, dal perdono, ha richiamato l’intervento del Rav Roberto Della Rocca che ha ripreso una lettura talmudica del filosofo. Se Lévinas chiama la Shoah «la Passione di Israele, dai tempi della schiavitù in Egitto fino a quelli di Auschwitz in Polonia» è perché – secondo Donatella Di Cesare – al popolo ebraico, espropriato nella sua storia persino della sofferenza subita nei secoli di persecuzione, Lévinas rivendica a chiare lettere la «Passione». La denuncia verso la teologia della sostituzione, che si è resa corresponsabile, non può essere più netta. Per altro verso Lévinas rifiuta ogni teologia dopo Auschwitz. «Dove era D-io ad Auschwitz?» non è una domanda ebraica. Resta semmai una questione per il cristiano e per l’ateo. Piuttosto l’ebreo si chiede: dove era l’uomo ad Auschwitz? La responsabilità è tutta umana. Quale umanità, dunque, nell’Occidente che ha permesso la barbarie?