Davar acher – Se vogliamo una stampa ebraica, finanziamola

Sul numero di maggio di “Pagine Ebraiche” il direttore di questo notiziario quotidiano e delle altre pubblicazioni dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Guido Vitale, lancia un appello e una campagna di abbonamenti per sostenere il giornale dell’ebraismo italiano. Aderisco volentieri con questa riflessione. La difficoltà di sostenere le istituzioni ebraiche è esistita per tutto il corso della nostra storia: ne accenna la Torah, fra l’altro anche nel brano conclusivo di Vaikrà che abbiamo letto a Shabbat. Ne discutono i maestri del Talmud, vi si fanno sopra responsi durante il Medioevo, se ne occupano con crescente difficoltà le comunità contemporanee.
Essere ebrei nella Diaspora non è certo un lusso, ma costa abbastanza caro, perché bisogna mantenere il culto, lo studio, l’amministrazione, i beni culturali, la kashrut tutto ciò che fa sopravvivere faticosamente una cultura complessa come la nostra in mezzo a un’altra che funziona secondo logiche diverse. La mano pubblica può aiutare, ma non è mai risolutiva e rischia sempre di innescare processi di burocratizzazione e di dipendenza. L’ebraismo vive in un tempo e in un luogo solo se gli ebrei sono disposti a mantenervelo. La logica di questo mantenimento non può essere solo quello delle tasse o della “decima” biblica, ma dev’essere anche quello del dono, dell’offerta, che è così importante nella nostra tradizione.
Essendomi trovato negli ultimi anni a presiedere una sinagoga non ortodossa che ha le dimensioni di una comunità media, so bene quanto sforzo ciò richieda in chi raccoglie i fondi (e anche chi li deve dare, magari trovandosi in difficoltà economica). L’ebraismo italiano ha la dimensione di un paesone, più che di una cittadina: meno di trentamila persone. Ma deve mantenere diverse decine di sinagoghe, fra cui molti edifici storico-monumentali, una mezza dozzina (in crescita) di musei, rabbini, insegnanti, funzionari, scuole di ogni ordine e grado compreso il Collegio Rabbinico che ha un livello universitario, biblioteche, case di riposo, enti di solidarietà – e la stampa ebraica. Un carico o piuttosto una responsabilità che sarebbe commisurata piuttosto a una grande città. Il problema pressante dei bilanci comunitari, che oggi è terribilmente generale, parte di qui: da quella sproporzione fra numero e responsabilità che è condizione caratteristica dell’ebraismo, a partire dalle sue origini. Vi è una morale in questo: noi non possiamo essere noi stessi – non solo sopravvivere, ma realizzare la nostra identità e la nostra missione – senza un grande sforzo quotidiano: l’ebraismo non è una condizione comoda, è una scelta continua, un compito senza fine che sfida le forze di ciascuno. Senza dubbio anche in questa sfida sta il segreto della bellezza e della creatività della nostra cultura. La morale è chiara: se vogliamo la scuola ebraica, se vogliamo i rabbini, se vogliamo la kashrut, se vogliamo infine la stampa ebraica – dobbiamo pagercele. Tutti i collaboratori che scrivono per questi giornali a modo loro hanno già iniziato a farlo perché – è utile ricordarlo – lo fanno a titolo gratuito.

Ugo Volli