Perché opporsi agli atti di arroganza

Da ciò che è accaduto nel Ghetto di Roma mi pare che possiamo trarre alcune riflessioni: si può essere in disaccordo, ovviamente, con la lettera di Giorgio Gomel pubblicata su «Shalom», purché il dissenso si manifesti in modo civile. Non è tollerabile che la discussione, di per sé utile, si sposti sulle mura della scuola ebraica, assuma la volgarità come stile, sia tecnicamente illegale.
È quantomeno singolare che ci siano voluti vari giorni per cancellare scritte che solitamente vengono nascoste in un paio d’ore. Queste scritte sono rivelatrici di un senso comune. Una paura («tutti sono contro Israele», «tutti ci vogliono male») che si traduce in atti di arroganza.
È un bene o un male se i dissidi interni alla Comunità divengono di dominio pubblico? Io ritengo che spiegare che gli ebrei non sono un monolite possa essere utile e positivo. Discutiamone. Ho però la strana impressione che gli autori anonimi siano gli stessi che sovente criticano le interviste degli altri. Credono forse che le scritte siano meno visibili dei giornali? Quanta differenza con i ragazzi che hanno cancellato le scritte (il movimento Haviu et Ha-Yom)! Da questi ultimi nessun insulto, foto di gruppo e rivendicazione pubblica del gesto. Un atto politicamente fondativo: si compie un’impresa comune, ci si fa conoscere, si cementa la comunione di animi e obiettivi. La risposta, sempre anonima e vigliacca: «Fatte li cazzi tua». La retorica degli «ebrei buoni» e degli «ebrei cattivi» è veramente oscena, e ricalca quella, altrettanto oscena, contro il «buonismo» e il politically correct. Ammesso che questa questione abbia un senso, non c’è nulla di male a essere buoni. O a esserlo almeno un po’. O a provarci.
In tutta la discussione si è scelto di calpestare una parola nobile ed evocativa: «Fratelli». Sarebbe interessante promuovere un dibattito su questo tema, chiedendo lumi ai nostri Maestri. Sarebbe bello se partecipassero anche i protagonisti della polemica. Sempre che tutti abbiano un nome e qualcosa da dire.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas