Voci a confronto

In una giornata che offre ben poco se non nulla di un qualche rilievo dalla stampa sui temi di pertinenza di questa rassegna ci permettiamo di iniziare da una segnalazione, quella dell’articolo di Gian Enrico Rusconi su la Stampa, testata per la quale recensisce la riedizione, filologicamente curata e annotata, di un testo capitale per la cultura del Novecento, la «Lingua Tertii Imperi» (la lingua di un terzo impero, il Reich delle camicie brune) di Victor Klemperer. Il libro è un vademecum sul totalitarismo nazista del quale l’autore analizza la sua interna costituzione facendo un lavoro di scavo dal vivo – essendo vissuto in quegli anni nella Germania di Hitler – sulla base di un presupposto, quello della fondazione linguistica della violenza del potere. Prima ancora di George Orwell, che alcuni anni dopo darà alle stampe il suo «1984», Klemperer aveva registrato la rilevanza strategica dell’uso coatto e manipolato delle parole nella costruzione quotidiana del consenso al regime. Di professione filologo, quindi studioso dell’origine e dell’uso del lessico, francesista, docente universitario, poi espulso dall’accademia tedesca dopo la presa del potere di Hitler in quanto ebreo, peraltro già convertitosi da tempo al protestantesimo, l’autore riuscì tra mille vicissitudine ad avere salva la vita poiché sposato ad un’«ariana». All’epoca, come una parte dei lettori della rassegna sicuramente sapranno, nel Terzo Reich le leggi preservavano temporaneamente dalla deportazione quei tedeschi di origine ebraica che avessero contratto un matrimonio con una persona razzialmente «pura». Li preservavano da quell’esito immediato ma non li esoneravano dalle vessazioni e dalla miriade di limitazioni prima e di soprusi poi che cadevano come una costante gragnola di colpi su individui che erano stati declassati dal ruoli di cittadini a quello di sudditi, in attesa di vedersi compiere la tragedia finale. Klemperer, che non aveva lasciato il paese, si acconciò alla situazione della quale divenne, suo malgrado, un attento cronista registrando la totalità degli eventi di cui veniva a conoscenza (e le considerazioni che maturava su di essi) in una serie di diari, compilati clandestinamente e conservati segretamente. La scoperta, infatti, avrebbe causato serie problemi al loro estensore, non da ultima la condanna a morte. Di una parte di essi abbiamo l’edizione italiana, usciti con il titolo «Testimoniare fino all’ultimo» (Mondadori, Milano 2000) insieme a «E così tutto vacilla. Diario del 1945» (Scheiwiller, Milano 2010). Si tratta di testi eccezionali poiché compilati da un osservatore di eccezione quale Klemperer era, una sorta di entomologo della quotidianità, uso ad osservare al microscopio della sua intelligenza ogni più piccolo fatto non per raccoglierlo in una serie amorfa e neutra ma per ricondurlo ad una lettura critica. Se dei regimi totalitari quello che sembra restarci sono solo le inflazionate immagini dei dirompenti momenti pubblici, l’osservazione dell’infinita quantità di fatti privati incorsi ai tedeschi di quegli anni ci aiuta a capire meglio quali fossero (e quali potrebbero essere, nella malaugurata ipotesi) i meccanismi attraverso i quali le istituzioni della perversione politica, morale e civile pervadevano ogni anfratto dell’esistenza di comuni esseri riempiendoli di significati eterodiretti. La lingua, come si diceva, era uno strumento capitale di quest’opera di corruzione politica poiché mutandone i significati, contraendone prima e decapitandone poi la ricchezza di contenuti, estorcendone la vivacità di usi per ridurla ad uno stereotipato insieme di rauche parole, adatte alla concezione sospesa tra trincea e caserma che i nazisti nutriva della società, nel nome della “semplificazione” e della “omogeneizzazione” fungeva da vettore della distruzione del dissenso e del pensiero proprio. La potenza di Klemperer, testimone e protagonista di quegli anni, sta nell’impegno con il quale registra e analizza questa catastrofica opera di desertificazione dell’intelligenza, alla quale oppone la sua scrittura. Detto questo, corredato dall’invito, non rituale, di andare a leggere per davvero «Lingua Tertii Imperi», offertoci dalla casa editrice Giuntina di Firenze, passiamo a qualche notizia di più stretta attualità. Sul Medio Oriente i giornali di oggi riportano le notizie della missione a Beirut del Tribunale speciale per il Libano che indaga sull’assassinio del premier Rafiq Hariri, consumatosi nel 2005. Così Roberta Zunini su il Fatto, Francesco Battistini per il Corriere della Sera, Marina Calculli su il Messaggero, Fabio Scuto per Repubblica, Antonella Vicini su il Riformista, Marina Verna per la Stampa, Umberto De Giovannangeli su l’Unità ma anche il Foglio. La richiesta di spiccare quattro mandati di cattura a carico di altrettanti esponenti dell’Hezbollah, partito-stato-movimento di osservanza sciita e dipendenza iraniana, che domina pressoché incontrastato la regione meridionale del paese e che conta al governo ben diciannove ministri, era tanto prevedibile quanto è potenziale foriera di future tensioni. Il Libano, in questi mesi, è rimasto al riparo dagli effetti della «primavera araba» ma la rumorosa presenza della componente sciita (e non solo di questa, per la verità) potrebbe rimettere in discussione i precari equilibri che hanno fatto sì che il paese non riprecipitasse in questi ultimi anni nel gorgo della guerra civile. Difficilmente Nasrallah e i suoi uomini lasceranno che il Tribunale internazionale ottenga l’atteso riscontro alle sue richieste, ben sapendo che se fosse invece altrimenti il «partito di Dio» sarebbe immediatamente trascinato sul banco degli imputati. Ragion per cui è bene concentrare l’attenzione su quanto avviene nel paese dei cedri poiché le fonti di instabilità sono più che mai all’opera.

Claudio Vercelli

1 luglio 2011