Davar acher – Shavuot e la lettura infinita
Le Asseret hadibrot (dieci parole), cioè il Decalogo o i “dieci comandamenti”, come li si cita normalmente oggi secondo una traduzione prevalentemente cristiana, sono uno dei culmini della Rivelazione ebraica, tant’è vero che ne è prescritta la lettura solenne per Shavuot, la festa del dono della Torah. Anche se i saggi scelsero di escluderle dalla liturgia quotidiana, per non farne oggetto di culto eccessivo, le usiamo spesso come simbolo della nostra religione, per esempio rappresentandole sopra l’Aron, sugli ornamenti dei Sefarim, dovunque si tratti di rappresentare la fede ebraica.
A differenza di altri brani della Torah, normalmente si agisce come se quel che esse dicono sia chiarissimo, non bisognoso di commento, autoevidente: il rifiuto dell’idolatria, l’osservanza dello Shabbat, l’onore dei genitori, la proibizione dell’omicidio e del furto, eccetera. Tutti obblighi che sembrerebbe bisognosi di pedagogia, spiegazioni, esortazioni,, ma non di discussioni sul senso. E però le cose non stanno mai così nei rapporti fra ebraismo e testi sacri: il significato letterale va sempre conservato, ma il lavoro di interpretazione continua per rivelare nuovi strati, nuovi sensi, nuove prospettive. E il testo dice di più di quel che appare in un primo momento. La lettura ebraica è infinita per questo.
Nell’imminenza di Shavuot, viene dunque molto opportuna, dunque, la pubblicazione di un libro sulle asseret hadibrot di Haim Baharier (“Le dieci parole” , Edizioni San Paolo 2011, € 10): un libro sottile ma esigente, che si può leggere in un paio d’ore ma resta nel pensiero a lungo. Nel Talmud si incontra qua e là il confronto fra due tipi di maestri, quelli che sono come “una montagna incrollabile” (un “Sinai”) o una “cisterna che non perde” una goccia d’acqua (i maestri che mantengono intatta e pura la tradizione) e quelli che sono come “fonti inesauribili” o “sradicano le montagne” (coloro che producono nuovo interpretazione e nuovo pensiero, beninteso a partire dalla tradizione). Nella mia esperienza di allievo, Baharier è il più creativo dei maestri di Torah oggi in Italia, il più “sradicatore”, con maggior vocazione teorica e più passione della provocazione ermeneutica: è il maestro di molti che ha saputo anche far brillare lo splendore del pensiero ebraico davanti a platee non ebraiche larghe e qualificate. Da un commentatore come lui il tema del Decalogo non può certo venir affrontato dal punto di vista, pur importantissimo, del puro insegnamento morale, come per esempio fece André Chouraqui (I dieci comandamenti, Mondadori 2002, € 7,80). Diventa un monumento di pensiero ebraico, un’espressione della specifica comprensione del divino che appartiene all’ebraismo e non solo un codice di condotta fra i diversi anche più originali che si trovano nella Torah.
Di fronte al problema interpretativo preliminare delle asseret hadibberot (come mettere assieme la prima affermazione: “Io sono il D. che ti ha fatto uscire dall’Egitto” ecc. con gli ordini successivi in un insieme coerente), Baharier rovescia la strategia più comune, cioè non assimila la prima parola alle altre leggendo anch’essa come un ordine, quello più o meno implicito di professare il monoteismo. Al contrario, legge tutte le altre alla luce di questa, mettendo al centro della sua interpretazione la parola ‘”anokhi” iniziale (il pronome ebraico che si usa tradurre come un “io” enfatico, quasi fosse un plurale majestatis “noi” senza la connotazione di molteplicità). Baharier vede nelle altre nove parole non comandi ma altrettante “promesse” mediate da quell'”anokhi” e condizionate ciascuna dalla realizzazione di altrettante “premesse” da individuare nella lettura dei versetti che introducono alla Rivelazione. Le “premesse” descrivono i passi da compiere per entrare in rapporto con “anokhi”; le “promesse” sono conseguenza e conducono all’instaurazione di uno stato di giustizia nei rapporti fra gli uomini, fra gli uomini e la Terra e soprattutto fra gli uomini e il divino.
Quest’ultima relazione è la più importante, il cuore segreto del testo: il Decalogo, nella lettura di Baharier, diventa una sorta di matrice per costruire il rapporto di Israele col divino e anche dove sembrano prescrivere regola nei rapporti interumani (per esempio “non commettere falsa testimonianza” o “non ammazzare”), forniscono istruzioni sul modo in cui si deve porsi di fronte al divino. Per ottenere questo strato di senso Baharier lavora da vicino il testo ebraico, con tecniche etimologiche e combinatorie caratteristiche del pensiero ebraico, se ne appropria nel profondo, schivando la traduzione più ovvia.
Tutto ciò comporta che nelle Dieci Parole, il luogo testuale della Torah cui è stato dato da sempre maggior valore universalistico, si debba leggere anche un messaggio specificamente ebraico, che esse dicano cioè qualcosa di essenziale sulle condizioni a cui si realizza il rapporto fra Israele e Hashem. Il carattere universale del testo sarebbe dunque una specie di conseguenza del suo senso ebraico. E anche questa è una lezione che riguarda Shavuot e la Torah che vi si legge: ricordo di un momento cardinale della storia universale dell’umanità e della formazione piena della specifica anima ebraica, nello stesso tempo, attestazione che solo restando ebraico e non diluendosi in un generico umanitarismo Israele può dire qualcosa di decisivo per tutta l’umanità.
Ugo Volli