affissioni…
Cosa hanno in comune le vie di Meà Shearim a Gerusalemme e quelle del Ghetto di Roma? Apparentemente ben poco, se si considerano i diversi modelli di religiosità. Eppure qualcosa in comune c’è, e in particolare l’uso di servirsi dei muri per esprimere idee. Le strade di Meà Shearim sono tappezzate di manifesti che contengono annunci vari, necrologi, ma soprattutto proteste antisioniste, condanne e anatemi reciproci; sono così interessanti che qualcuno ha pensato di catalogarli e studiarli. Cose analoghe avvengono nel Ghetto di Roma dove dalle scritte murali a vernice, qualche volta chiare, altre volte allusive e criptiche, sarcastiche, ironiche, intolleranti, violente, si è passati ai manifesti a stampa. Ancora dura la polemica comunitaria sull’ultima ondata di scritte e affissioni. A sostenere questa strana analogia tra Gerusalemme e Roma si aggiunge un’insolita circostanza. Nell’yiddish di Mea Shearim queste affissioni sono chiamate pashkevilin; un termine che ha fatto una lunga strada, passando dal polacco all’yiddish, ma nascendo a Roma, a ottocento metri dal Ghetto: pashkevilin deriva da “pasquinata”. La vita media delle affissioni murali a Meà Shearim è brevissima, subito qualcuno le strappa o le copre. L’unico sistema per fare durare di più un testo è attaccarlo 5 minuti prima di Shabbat, così almeno dura 25 ore. Chissà se lo stesso succederebbe nel Ghetto di Roma.
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma