…Comunità

Ci sono due modi di sentire la responsabilità di una comunità: da una parte operare perché sia una struttura capace di rispondere alle esigenze del maggior numero possibile di persone; dall’altra perseguire come obiettivo primario la conferma della propria identità e dunque porre costantemente il problema della scelta. Il confronto interno alla Comunità ebraica di Milano,e ora a quanto sembra di capire anche altrove, intorno alla questione della carne casher mi sembra rientrare in questa logica. Un confronto serrato tra chi propone vie che hanno l’obiettivo del contenimento dei prezzi e chi pone il problema delle regole. Non voglio entrare nel contenzioso delle scelte. Tutto ciò, alla lunga ha come effetto l’eventuale trasformazione della comunità in un neo-principato. Più esplicitamente: una corte. Ovvero: una struttura di governo dove c’è una prima cerchia di notabili che possono permettersi qualsiasi cosa; una seconda cerchia di acquiescenti che vivono all’ombra dei primi, e il resto che sbarca il lunario. Non si cambia la situazione facendo del patronato o distribuendo un po’ di carità (che è appunto il principio delle corti), ma dando l’opportunità, per principio a tutti, di scegliere. Ovvero garantendo una soglia minima, che è il principio su cui si definisce il “governo del bene comune” in regimi di eguaglianza e pari dignità L’alternativa per chi ancora ritiene che certe pratiche siano una cosa irrinunciabile o comunque non contrattabile sotto ricatto, visto che ancora siamo in democrazia, è quella semplicemente di organizzarsi fuori e andarsi a cercare ciò che la struttura nominale “Comunità” non è in grado o non vuole proporre. In altre parole: liberi tutti. Ma allora ha ancora senso chiamare quella struttura Comunità?

David Bidussa, storico sociale delle idee