Davar acher – Gli esploratori e l’odio di sé
Se la Torah si può e anzi si deve leggere in molti modi, uno sicuramente interessante da applicare consiste nel chiedersi che cosa possano significare oggi, tremila anni dopo, le sue storie e i suoi personaggi, che cosa possiamo impararne noi rispetto ai nostri problemi collettivi attuali. Questa domanda vale soprattutto per i numerosi casi in cui la Torah, diversamente da ogni altri testo religioso di altre culture, mette in evidenza senza pietà gli errori e le inadeguatezze dei nostri avi, a partire dai patriarchi e dalla prima generazione del popolo ebraico, quella che ebbe lo straordinario onore della Rivelazione. E’ lecito pensare che queste traversie siano conservate nel testo come ammonimenti, diagnosi di tentazioni permanenti nel popolo ebraico.
E’ il caso degli “esploratori”, mandati da Mosè a ispezionare la Terra di Canaan di cui abbiamo letto nella parashà di ieri. Com’è noto gli “esploratori” sono i “principi” delle dodici tribù, i loro leader politici e intellettuali: possiamo immaginarli come persone sagge ed elevate. Ma costoro, ricevuto il compito di valutare la ricchezza della Terra e la difficoltà della sua conquista, la “diffamano” dicendo essa che “mangia” chi vi si “insedia” e che vi abitano “uomini di grande statura” contro cui “non si può andare perché è più forte di noi”. Il popolo si convince della loro parola, contro quella di Mosè, Aronne e Giosuè, si ribella e non vede soluzione migliore che tornare in Egitto. Nella storia della Torah questo è uno degli errori più grandi, strutturalmente messo in rapporto con quello del vitello d’oro. Mosè fatica a evitare la distruzione totale del popolo da parte dell’ira divina, ma non resiste al decreto per cui tutti coloro che hanno preso parte all’episodio debbano morire prima di entrare in Eretz Israel. C’è chi fra i commentatori connette a questa vicenda anche le due successive distruzioni del Tempio.
Si può leggere tutto ciò come qualcosa di più di un episodio lontano? Io credo che si debba vedervi piuttosto un rischio permanente della coscienza ebraica. E’ chiaro che la tentazione di vedersi come “cavallette” e scambiare i nemici come “giganti” (non fisici, ma culturali e morali) è molto presente nella cultura ebraica dopo l’emancipazione. Tutta l’opera di Kafka può essere letta come un consapevole commento di Numeri 13:33. Ma quel che ne viene descritto è un atteggiamento molto più largo e confuso, da quell’Otto Weininger che descrisse in “Sesso e temperamento” l’ebraismo come “la più vile codardia”, alla tentazione di conversione di Rosenzweig all’antisemitismo morbido e all’antisionismo duro di molti intellettuali di origine ebraica, per arrivare a coloro che oggi esaltano contro Israele la “mitezza” e l'”umiltà” degli ebrei oppressi di un tempo, finendo con chi oggi non perdono occasione di accusare Israele di presunte ingiustizie, giustificando allo stesso tempo la “lotta di liberazione palestinese”.
Insomma, quello che è in gioco qui è l'”odio di sé”, l’assumere impropriamente lo sguardo “presunto” dei propri nemici (“eravamo delle locuste ai nostri occhi e così sembravamo loro”, come ricostruisce con estrema acutezza il testo questa percezione di auto-disprezzo).
Che questo atteggiamento sia connesso al rifiuto di assumersi il compito e i rischi della conquista della Terra e alla nostalgia per la prigionia egiziana è un altro tratto molto attuale. Un popolo che si riconosce storicamente non indigeno – dunque colono o esiliato -, e che sa di dover conquistare la propria terra attraverso la durezza della guerra e del lavoro, è sempre esposto alla tentazione di rinunciare alla propria storia, di dare ragione ai propri nemici, vedendoli “più grandi” e “più forti” di quel che sono, titolare di un diritto che mancherebbe a se stesso.
Il timore del compito diventa odio per chi vuole entrare nella Terra (i “coloni” dell’epoca), rifiuto della fratellanza con loro, intolleranza nei loro confronti fino al tentativo di lapidarli (14, 10). La motivazione dell’intolleranza è “pacifista” (meglio morire nel deserto che morire per spada (14:2-3), oltre che “utilitarista” (“le nostre mogli e figli diverranno preda” (14:4): colpa naturalmente di chi ci guida al rischio e non dei predatori, i quali sono “grandi”).
Non è certo difficile individuare la declinazione attuale di questo tema, il modo in cui oggi si esercita la tentazione perenne dell’anima ebraica di uscire dalla storia e rinunciare a sé, dando ragione all’altro in quanto altro, arrendendosi e schiacciandoci a terra come cavallette, magari col pretesto di una moralità universalistica.
Ugo Volli