La lingua della Giustizia

Intervenendo all’inaugurazione a Bergamo della Scuola superiore della Magistratura, Umberto Bossi ha dichiarato testualmente: «Io mi sento più sicuro se vado a farmi giudicare da un magistrato che capisce il mio dialetto». L’aspetto più preoccupante è forse che questa frase, pronunciata da un ministro, sia passata sostanzialmente inosservata, travolta dalle polemiche politiche.
Questo concetto è radicalmente sbagliato per vari motivi. Sul piano politico, perché tende a marcare la divisione geografica del paese; sul piano culturale, perché sostiene che le specificità locali vadano contrapposte e non integrate; sul piano economico, perché i paesi che crescono riescono a inserire non solo i cittadini di altre regioni, ma persino immigrati da altri paesi (non oso immaginare come si sentirebbe Bossi con un magistrato nato, che so?, in Senegal…); sul piano linguistico, perché non ha senso parlare di dialetti di ambiti territoriali ampi (la Padania): le parlate italiane variano da paese a paese, da contrada a contrada, e il dialetto non va sterilmente contrapposto alla lingua nazionale.
C’è una frase bellissima che mi è venuta in mente leggendo questa dichiarazione: «L’uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui che si sente straniero in ogni luogo» (Ugo da San Vittore).
In ogni caso, mi convinco sempre di più che il linguaggio pubblico non sia solamente un termometro di civiltà, ma proprio il cuore del problema. Per questa ragione va salutata con soddisfazione la nuova edizione aggiornata – in libreria da qualche giorno – di «Lti – La lingua del Terzo Reich» (Giuntina) del filologo Victor Klemperer: un libro straordinario che riassume la notazioni linguistiche dello studioso ebreo nel corso dei dodici anni di nazismo. Approfondire il peggiore stupro linguistico della storia ci salverà?

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas