Esploratori, ma’apilim e coloni
Da millenni la Torah è letta settimanalmente per trarne insegnamenti rilevanti per la nostra vita attuale. Come dice il Talmud, ma’ase avot siman la-banim (gli atti dei padri sono un segno per i figli). Ha quindi ragione il professor Volli, commentando l’episodio degli esploratori nella parashà di Shelakh lekha letta shabbat scorso, a “chiedersi che cosa possano significare oggi, tremila anni dopo, le sue storie e i suoi personaggi, che cosa possiamo impararne noi rispetto ai nostri problemi collettivi attuali”. Per inciso, il ciclo di lettura annuale della Torah seguito in tutto il mondo è secondo l’uso delle antiche comunità ebraiche babilonesi; quelle della terra d’Israele la leggevano con un ciclo triennale, e le parashot erano di conseguenza divise diversamente e più corte. Nell’Ottocento ci fu un rabbino italiano che propose di adottare il ciclo di lettura triennale, forse per non prolungare troppo la preghiera del sabato. Se questa idea avesse preso piede, una newsletter sul web con il commento alla parashà settimanale sarebbe oggi di difficile lettura per quelle comunità.
Ma torniamo agli esploratori e al loro rifiuto di entrare nella Terra di Canaan per il timore di essere sconfitti dalla popolazione autoctona. Volli si lancia in parallelismi apparentemente aderenti alla situazione odierna. Coloro (pochi) che volevano entrare nella Terra sono come i coloni di oggi. Gli altri (molti) che stavano dalla parte degli esploratori sono i “pacifisti” (Volli dice proprio così, interpretando in questo senso il verso Numeri 14:3, mentre è chiaro che la motivazione non è affatto il pacifismo, ma la paura di morire infilzati dalla spada). I secondi si sarebbero rifiutati di considerare fratelli i primi, dove “fratelli” è un termine di facile presa, visti i dibattiti recenti; peccato che nel testo questo non ci sia scritto. Si parla di fratelli, ma in senso positivo (14:4). È vero che i secondi volevano lapidare i primi, ma i fratelli non c’entrano.
Il rischio, quando si vuole a tutti i costi dimostrare un proprio teorema, è di “forzare (lett. curvare) il senso delle parole della Torah” (vedi in Ha’ameq davar, il commento del Netziv di Volozhin, all’inizio della parashà). Ma la lettura della Torah non è mai univoca, come l’intervento del rav Roberto Della Rocca del 21 giugno ci ha ricordato. Secondo Volli, dato che gli esploratori e i loro sostenitori furono puniti, potremmo automaticamente concludere che hanno ragione coloro che oggi vogliono entrare a tutti i costi nella Terra. Però basta andare alla fine del racconto dell’episodio narrato nella Torah, qualche decina di versi più in là (14:40-45), per rendersi conto che le cose non stanno così. Quando alcuni, nonostante D-o avesse già decretato la peregrinazione per quarant’anni nel deserto, vollero “salire” nella Terra di Canaan (i cosiddetti ma’apilim), facendosi interpreti della “vera” parola divina, furono duramente sconfitti dagli amaleciti e dai cananei. Il ripensamento era arrivato troppo tardi. Il problema dei ma’apilim e di coloro che oggi li vogliono imitare è che è difficile interpretare correttamente la parola divina. Chi pensa di farsene portavoce rischia “di forzarne le parole”. Come ha scritto tempo fa il professor Yeshayahu Leibowitz (un grande talmid chakham, pure per i suoi oppositori): “Per quanto concerne poi le tesi ‘religiose’ in favore dell’annessione dei territori, esse non sono che espressione di un’inconsapevole (o forse anche consapevole) ipocrisia, espressione di una trasformazione della religione d’Israele in avallo del nazionalismo israeliano. Una religiosità fasulla […]. La conquista della «terra» ad opera dell’esercito dello Stato d’Israele è un successo nazionale di vaste e memorabili proporzioni per ogni ebreo, religioso o laico, che abbia una coscienza nazionale. Ma come fatto in sé essa è intanto priva di significato religioso. Non ogni «ritorno a Sion» è definibile un’impresa religiosa: può esservi un ritorno a Sion nel senso di «e verrete e renderete impura la Mia terra, facendo del Mio possedimento un abominio» (Geremia 2,7)…” (Jeshajahu Leibowitz, Ebraismo, popolo ebraico e Stato d’Israele, Carucci ed. DAC, 1980, pag. 163-164, traduzione a cura del mio Maestro Ariel Rathaus). In un altro testo Leibowitz definisce “machrid” (terrificante) l’episodio dei ma’apilim.
Finché ci si limita ad attualizzare la parashà settimanale per trarne divrè torah per la se’udà shelishit dello shabbat pomeriggio va benissimo. Ma se si vuole giungere a conclusioni di ordine halakhico (o politico, come in questo caso), allora le cose si fanno molto più complicate e facilmente si finisce per “curvare il testo” a proprio uso e consumo.
Gianfranco Di Segni, Collegio rabbinico italiano