Start-up nation
Secondo gli indicatori economici, Israele ha tutti i titoli per definirsi «start-up nation», un paese in cui gli imprenditori sono portati a rischiare, investire, creare nuove aziende. A scorrere le statistiche, infatti, si scopre che i fondi di venture-capital attivi in Israele sono una miriade, e che il numero di società israeliane quotate al Nasdaq (listino dei titoli tecnologici) è superiore al totale di tutte le aziende europee.
Questi dati inorgogliscono, perché mostrano un volto straordinario di Israele dimenticato, oscurato dall’attenzione dedicata al conflitto con i palestinesi. La congiuntura economica favorevole, però, tocca anche gli ebrei italiani, pochi e con prospettive future incerte. Un numero crescente di giovani, infatti, si trasferisce in Israele dopo la maturità o dopo la laurea. Si tratta di una scelta dettata da ragioni diverse: religiose, professionali, personali. Una soluzione che viene giustamente sostenuta, quando possibile, dalle stesse comunità di partenza oltre che dalle apposite organizzazioni ebraiche.
Se l’Italia del 2011 appare sempre più un «paese per vecchi», dove i più brillanti emigrano per ambizione e per necessità, è evidente che i giovani ebrei hanno un movente aggiuntivo. Sarebbe forse utile ragionare, all’interno delle comunità, su come conciliare quest’emigrazione virtuosa e contemporaneamente garantirsi un futuro. A me vengono in mente tre direttrici su cui lavorare: incentivare un flusso contrario, cioè favorire la presenza di studenti e lavoratori israeliani nelle nostre città, intensificando lo scambio con i più giovani della comunità; individuare misure di sostegno per le coppie, così da attirare persone da tutta la Diaspora; individuare modalità di inserimento e sostegno professionale per giovani, sempre allo scopo di favorire un’immigrazione esogena o un «ritorno a casa» di alcuni. Servono risorse, certo. Ma prima ancora servono le idee.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas