L’interlocutore che manca
Lo scorso 23 giugno si è celebrato il decimo anniversario della Fondazione Beresheet LaShalom, creata nel kibbutz Sasa, in Alta Galilea, dalla poliedrica artista Angelica Livne Calò – candidata al Nobel per la Pace nel 2006 -, col proposito di educare a una cultura di pace e libertà, attraverso l’arte, giovani di varia estrazione etnica, culturale e religiosa. “In ogni parte del mondo – dice Angelica – c’è bisogno di incoraggiare, di combattere il cinismo, di dare legittimità a chi desidera sentirsi libero di danzare, di abbracciare, di sentirsi grande anche se è la più piccola e minuscola parte di un complesso motore. Perché c’è bisogno di tutti. E tutti devono imparare a riconoscere l’altro. Dargli spazio. Dargli pace”.
In occasione di questa ricorrenza – che è stata suggellata dalla fondazione di un’apposita Associazione Amici di Beresheet LaShalom, presieduta da Dario Disegni e diretta da Maria Grazia Balbiano, e dalla realizzazione di un volume di testimonianze, a cura di Andrea Jarach – viene, innanzitutto, da esprimere la più profonda ammirazione e da tributare il più caloroso ringraziamento ad Angelica Livne Calò per l’inesauribile energia, l’incrollabile entusiasmo, la straordinaria forza morale che la ha animata in questi anni, permettendole di avviare generazioni di ragazzi, di ogni colore e appartenenza – ebrei, musulmani, cristiani, molti dei quali provenienti da situazioni difficili – all’amore per l’arte, alla capacità di esprimersi e, soprattutto, di ascoltare, dialogare, conoscersi, rispettarsi, nella specifica identità, individualità e differenza di ciascuno. Il contributo da lei dato alla pace (quella vera, non quella dei finti pacifisti) è enorme, incalcolabile: la sua energia, la sua fiducia – nonostante ogni avversità, ogni ostacolo, ogni delusione – rappresenta il simbolo della forza, della vitalità della società israeliana, la spiegazione migliore di come questo Paese riesca sempre, nonostante tutto, a risorgere, a crescere, a sperare.
Ricordo, molti anni fa, quando accompagnai Angelica, a Napoli, a un dibattito sulla pace in Medio Oriente, in cui avrebbe dovuto confrontarsi, fra gli altri con un’artista araba. Ricordo come andò all’appuntamento piena di gioia, entusiasta dell’opportunità, felice di potere conoscere la collega e interloquire con lei. Pur senza neanche sapere chi fosse, la sentiva già un’amica. Trovò, invece, un muro di incomunicabilità, di livore. Tanto in pubblico quanto in privato, la sua interlocutrice mostrò di non provare alcun desiderio di ascoltare le sue ragioni, ma solo di manifestarle la sua ostilità, il suo radicale rifiuto. Ricordo ancora, alla fine dell’incontro, il volto sconfortato di Angelica: nei suoi occhi mi parve di scorgere un velo di lacrime. Ma la rividi ancora la mattina successiva: e il suo sorriso era tornato lo stesso di sempre, così come la sua voglia di rimettersi a lavorare: per i ragazzi, per l’arte, per la pace.
Il principale augurio, in questo decennale, è che nasca qualche Angelica anche dall’altra parte. Ce ne basterebbe anche una. Perché, come ebbe a dire Golda Meir, “il giorno in cui ameranno i loro figli più di quanto odino noi, allora avremo la pace”.
Francesco Lucrezi, storico